La ricetta è molto semplice e praticamente infallibile. Si prende di mira un personaggio in vista o scomodo, come il governatore di Giacarta, il cristiano Basuki 'Ahok' Purnama, o anche perfetti sconosciuti, come la povera Asia Bibi, che giace nelle prigioni pachistane dal 2009 – e contro la cui scandalosa condanna a morte questo giornale si batte da anni – per accusarli di blasfemia. Sull’onda del radicalismo islamista che da decenni flagella tutto il mondo islamico non serve che l’accusa sia vera. Basta dire che l’accusato abbia insultato il Corano o il Profeta.
Fondamentale aggiungere una folla minacciosa di invasati urlanti, che minacciano giustizia sommaria e – come avviene spesso – si lanciano contro chiese, scuole e case cristiane per ottenere giustizia sommaria. O che minacciano governi, giudici e poliziotti che si ostinano a voler capire se le accuse siano vere o solo vergognose montature politiche. Il risultato è quasi invariabilmente che le autorità politiche e giudiziarie si piegano alla vergognosa campagna e arrestano (o mettono sotto processo) l’accusato. Il quale di fatto non ha strumenti per difendersi. Perché vi sono sempre attivisti che ossessivamente rilanciano l’accusa di blasfemia, di esser nemico dell’islam, senza che vi sia possibilità reale di replica.
In Pakistan, Asia Bibi è privata da anni non solo della libertà, ma anche del diritto alla revisione di un processo farsa, perché i giudici sono troppo spaventati dalle violenze e dalle minacce di gruppi musulmani radicali e fanatizzati. In Indonesia, ove il vissuto islamico quotidiano è molto più variegato e sincretico, e ove esistono storiche e ben radicate comunità cristiane, induiste e buddhiste, il sistema politico è finora riuscito a stemperare tensioni.
Ma anche in Indonesia, come nel resto del mondo islamico, sono attivi movimenti che cercano di imporre una visione molto più dogmatica e intollerante dei precetti islamici e che adottano un atteggiamento di chiusura, se non di ostilità vera e propria, nei confronti dei non musulmani o dei musulmani più aperti e tolleranti. Al solito, l’Arabia Saudita ha riversato finanziamenti e inviato predicatori per sostenere la diffusione della corrente wahhabita e dei movimenti salafiti, nel tentativo di condizionare il vissuto islamico tradizionale indonesiano, riuscendo in parte a diffondere una cultura di chiusura verso le altre fedi, di dogmatismo e di aperta ostilità verso tutte le altre forme di islam che essi ritengono 'deviate' (sciiti, ahmadiyya, sufi).
Ma si è trattato di un successo solo parziale, complice un certo sincretismo dell’islam popolare, soprattutto nelle campagne, e una evidente ritrosia della maggioranza degli indonesiani nei confronti di letture troppo radicali della religione. Anche l’evidente influenza dei sauditi sulle scuole e sulle moschee salafite locali ha limitato il successo di questa politica di 'indottrinamento' dall’esterno. Ma in gioco, evidentemente, vi sono anche equilibri più squisitamente politici. Ahok, come viene chiamato, è un governatore molto popolare, di fede cristiana protestante, che sta correndo per la sua rielezione. Il Fronte dei Difensori islamici, un movimento noto per la sua violenza e intolleranza, ha cercato di indebolirlo sostenendo che un musulmano non possa votare per un non-musulmano e portando a sostegno alcuni versetti coranici. Ahok ha condannato l’uso spregiudicato di un testo religioso per fare campagna politica. È solo la malafede dei suoi oppositori che ha trasformato la sua reazione in un attacco al Corano stesso. Un’accusa strumentale, che ora andrà provata in tribunale, in un’atmosfera rovente per le continue pressioni.
È evidente come a Giacarta vi sia oggi in gioco ben più della carriera politica – e della libertà – di un singolo indonesiano. Da come si comporteranno i poteri giudiziari e politici di quel Paese si capirà se anche per l’Indonesia vi sia reale il rischio di un cedimento alle pressioni delle forze peggiori attive dentro il mondo islamico: quelle che cercano di distruggere ogni ponte e ogni idea di convivenza armonica nei contesti caratterizzati da pluralità culturale e religiosa.