Con una proiezione per la metà del secolo che prevede 1,7 miliardi di indiani contro 1,3 miliardi di cinesi, la sproporzione delle rispettive popolazioni attive forse si rivelerà fondamentale sul piano della concorrenza economica - Ansa
In questi giorni la popolazione della Terra ha raggiunto quota 8 miliardi. Per molti Paesi la demografia ha da tempo acquisito una valenza economica, nel momento in cui l’andamento delle nascite e l’invecchiamento della popolazione possono incidere su produzione, prodotto interno lordo e welfare. In India, a questo aspetto, si aggiunge una valenza strategica nella prospettiva della rincorsa al rivale cinese, che la vede avvantaggiata nel momento in cui quello che un tempo era visto come un “problema” oggi si sta rivelando un vantaggio. Il grande Paese asiatico, che un tempo si considerava “vittima” della propria intensità demografica, oggi guarda alla risorsa della popolazione come a un fattore decisivo per lo sviluppo, ed è passato a considerarla da “fardello” a “materia prima” dei suoi piani e delle sue ambizioni.
Questa trasformazione in parte è frutto della “rivoluzione verde” degli anni Sessanta e dello sviluppo accelerato nell’ultimo ventennio, che hanno fornito cibo, lavoro e reddito più adeguati a un numero crescente di indiani, pur senza garantire un benessere diffuso e uniforme. La situazione nel Paese non è certo ideale, se l’ultimo Indice della Fame globale elaborato dalla tedesca Welthungerhilfe e dall’irlandese Concern Worldwide ha posto l’India al 107° posto (e al livello “serio”) tra 121 Paesi, in discesa per il terzo anno consecutivo dal 94mo posto che occupava del 2019. Una performance negativa dovuta anche alla pandemia da Covid-19 e a eventi climatici avversi che hanno condizionato i raccolti e i listini di riso e cereali. Complessivamente, però, si può dire che oggi il colosso asiatico non guarda più con preoccupazione alla vastità della sua popolazione, che era di 340 milioni di abitanti nell’anno dell’indipendenza, il 1947, è raddoppiata nel giro di 35 anni e ha poi raggiunto il miliardo nel censimento 2001, per salire oggi a 1,4 miliardi. Una crescita tumultuosa, dovuta però più che all’aumento delle nascite, a una durata maggiore della speranza di vita (70,19 anni nel 2022, il doppio rispetto al 1947) che ha premiato la crescente disponibilità di cibo, medicinali e servizi igienici. Nella Repubblica popolare cinese il dato sull’aspettativa di vita è molto più alto (77,5 anni), tuttavia l’India ha un forte vantaggio, in prospettiva, sul grande vicino e rivale in termini di mix generazionale, perché ha il 25,8% di abitanti sotto i 15 anni, contro il 17,3% della Cina, e il 67,5% della popolazione in età attiva, dato simile a quello cinese, al 70,4%. Con una proiezione (fonti Onu) per la metà del secolo di 1,669 miliardi di indiani contro 1,317 miliardi di cinesi, la sproporzione delle rispettive popolazioni attive risulta ancora più evidente e forse si rivelerà fondamentale sul piano della concorrenza economica.
Un dato che Pechino sta già mostrando di temere e che è anche conseguenza delle politiche ufficiali indirizzate dal 1979 fino al 2016 dalla “politica del figlio unico” imposta da Pechino attraverso disincentivi alle nascite, sanzioni alle famiglie e promozione dell’aborto legalizzato già nel 1953, tra i primi Paesi al mondo a farlo. Oggi la Cina ha cambiato rotta, cercando di invertire il trend negativo delle nascite attraverso una serie di provvedimenti di stimolo, ma anche limitando l’uso dell’interruzione della gravidanza per ragioni diverse da quelle mediche. Con poco successo, però: nel 2022 il tasso di natalità è sceso all’1,15%, dal 2,6% di trent’anni fa. Se l’imposizione per legge di una prole contenuta, finalizzata perlopiù alla preferenza verso i primogeniti maschi, per avere manodopera disponibile in rapporto alle risorse alimentari e energetiche, ha segnato la demografia cinese, al contrario in India si sono avute estese campagne di sterilizzazione, attribuendo però all’interruzione di gravidanza, sotto controllo sanitario, un carattere di “volontarietà”. Certo, forzature e imposizioni non sono mancate nella “più grande democrazia del mondo”, tuttavia la legge che per prima, nel 1971, ha cercato di ridurre l’incremento esponenziale della popolazione con pressioni e misure coercitive, conteneva l’obbligo per la donna che intendesse interrompere la gravidanza di ricorrere sempre al parere di un medico, vincolo ancora presente oggi.
L’obbligatorietà o la discrezionalità legale delle pratiche intese a ridurre la natalità si sono rivelate essenziali da un punto di vista storico per valutare le situazioni odierne di Cina e India, senza dimenticare il ruolo della discriminazione di genere che in entrambi i Paesi ha portato a uno squilibrio tra maschi e femmine. Nel caso di nascite indesiderate o non conformi ai desideri dello Stato o delle famiglie, infatti, la mancata comunicazione da parte dei genitori per non incorrere in pesanti sanzioni, ha prodotto in Cina decine di milioni di cittadini senza identità, in maggioranza donne, relegati ai margini della società e del benessere. In India, invece, milioni di nascite non volute hanno sostenuto il racket dell’adozione illegale, ha generato estese aree di sfruttamento, arrivando fino all’orrore dell’espianto di organi.
L’India avrà una popolazione superiore alla Cina prima della metà del secolo, ma con una componente maggiore di giovani
Nelle due realtà, l’aborto ha interessato soprattutto le donne single, la cui gravidanza è tradizionalmente condannata a livello sociale e quindi spesso risolta in clandestinità anche sotto costrizione della famiglia. Inoltre, mentre in Cina questa pratica ha assecondato le restrizioni imposte dallo Stato, in India ha riguardato anzitutto madri con un numero di figli percepito al limite delle possibilità familiari. Complessivamente, quella indiana resta una società più conservatrice di quella cinese. Le donne subiscono ancora oggi discriminazione e subordinazione economica e, come segnala il Rapporto sullo Stato della popolazione mondiale 2022 compilato dall’Onu, con una media di otto decessi al giorno l’aborto è diventata la terza causa di mortalità tra le madri indiane. Le sfide che attendono questo grande Paese difficilmente potranno essere vinte se non chiamando gli indiani a uno sforzo collettivo di partecipazione alla realtà globale che richiede anzitutto il pieno riconoscimento e l’integrazione di tutte le componenti della società. Il gioco delle alleanze internazionali, in cui un posto di rilievo ha e avrà il rapporto con gli Stati Uniti in funzione anche di contenimento verso la Cina, costringerà New Delhi a uno sforzo di inclusione per non essere a sua volta penalizzata e magari sanzionata sul piano dei diritti e delle libertà.
Interessanti a questo riguardo sono le riflessioni di Kishore Mahbubani, diplomatico di Singapore, accademico di fama internazionale ed esperto di geopolitica, il quale ritiene che i politici dell’India «non abbiano compreso perché la Cina sia diventata un’economia tanto forte», superando oggi di cinque volte la loro. «La Cina si è calata nell’oceano della globalizzazione, ha lottato per restare a galla, ha bevuto dell’acqua, ma alla fine è diventata una nuotatrice più forte», spiega Mahbubani parafrasando l’espressione usata dal presidente cinese Xi Jinping durante il Forum economico mondiale di Davos del 2017. L’economia indiana potrebbe «diventare forte come quella cinese se non maggiore», ma perché questo si realizzi «deve immergersi nell’oceano della globalizzazione», aggiunge. Ma forse anche venire a patti con radicate concezioni sociali che la politica filo-induista al potere giudica funzionali all’identità nazionale, mentre indica al Paese obiettivi economici e strategici ambiziosi.