Meglio dirlo subito, così nessuno potrà dire che queste riflessioni siano dettate dalla stizza per un risultato sgradito. Comunque vada, il referendum del 4 dicembre lascerà agli italiani un senso di saturazione e l’oscura speranza che passino un bel po’ di anni prima che ce ne siano altri. Effetto di una campagna referendaria esasperata e di strategie comunicative, da una parte e dall’altra, che anziché chiarire le idee agli elettori le hanno sistematicamente confuse. La vicenda mostra con assoluta chiarezza i limiti e i pericoli della democrazia referendaria, per non parlare di quelli di una utopistica democrazia diretta, che tanti vagheggiano come superamento di una deludente democrazia rappresentativa. In realtà ogni ipotesi di referendum postula, come premessa necessaria, che all’elettorato venga posto un quesito al quale si possa rispondere semplicemente con un Sì o un No, escludendo ogni terza via che non sia l’astensione nuda e cruda.
Ed è già difficile rispettare questa condizione; ma è ancor più difficile formulare il quesito in modo che sia comprensibile a tutti, e nello stesso tempo onesto e non tendenzioso. Per lo più si portano come esempi di quesito chiaro e onesto due referendum storici, quello sul divorzio e quello sull’aborto, ma questo può essere vero solo per il primo. Nel 1981 il referendum sull’aborto fu condizionato da un colossale fraintendimento: quasi tutti gli elettori credevano che la legge 194 consentisse una libertà di abortire limitata ad alcuni casi ben precisi, e che la proposta del Movimento per la Vita comportasse un divieto legale pieno; la realtà invece era che per la legge 194 la libertà di aborto è incondizionata, almeno nei primi tre mesi, mentre la proposta del Mpv tendeva a circoscriverla, non ad abolirla.
Il vero senso del quesito sfuggiva all’elettore medio. Poi ci sono i casi nei quali il quesito pone di fatto una pluralità di questioni distinte, alle quali si potrebbero dare risposte differenziate; come nel referendum attuale dove, volendo scindere i vari argomenti, si potrebbe arrivare a venti o trenta quesiti diversi; sicché l’elettore non sa bene per che cosa vota. Altre volte, infine, la sostanza del quesito è tale che per dare una risposta seria e consapevole ci vorrebbero conoscenze e competenze riservate a pochi specialisti. Sin qui, abbiamo visto le difficoltà pratiche e tecniche che rendono il referendum uno strumento utilizzabile solo in via eccezionale, e inadatto invece per il flusso continuo delle decisioni che quotidianamente si pongono a un Governo e a un Parlamento.
Ma sono più profonde e sostanziali le ragioni che rendono improponibile uno Stato moderno basato sulla democrazia diretta. Governare significa fare delle scelte, in un mondo nel quale i problemi sono complessi e non esistono soluzioni a costo zero. Il governante, il legislatore, l’uomo di Stato, non è chiamato a scegliere fra una cosa buona e una cattiva (questo sanno farlo tutti), ma fra due cose ugualmente buone, quando sai che scegliendone una sacrifichi inevitabilmente l’altra; o a scegliere fra due disgrazie ugualmente dolorose, quando sai che solo accettandone una puoi salvarti dall’altra. Nella politica però queste alternative non si presentano quasi mai così nette e immediate. Il conto da pagare per la scelta fatta oggi può arrivare chissà quanto tempo dopo, e dunque bisogna saper vedere lontano per prevederlo e stimare se ne vale la pena. Più in generale, la politica (quella buona) è progettualità di lungo respiro; come diceva De Gasperi, se il politico pensa alle prossime elezioni, l’uomo di stato pensa alle prossime generazioni. Tutto questo non va d’accordo con la democrazia dei referendum a getto continuo o peggio ancora con quella del 'mi piace' lanciato schiacciando un tasto del telefonino.
La democrazia rappresentativa è l’unica formula realisticamente praticabile. Questa stagione politica, profondamente segnata dalla crisi della rappresentanza, continua a confermarcelo.