Caro direttore,
scrivo da Roma, città in cui mi sono trasferita da Genova e in cui risiedo da oltre 25 anni. Scrivo in merito ai recenti accadimenti che hanno portato alla luce del sole un inqualificabile andazzo (che peraltro pare accomuni molti esponenti della nostra classe politica) ma interno alla Lega, partito che per anni ha definito la nostra città 'ladrona'. Insulto che noi cittadini romani abbiamo subito praticamente in silenzio per anni. Oggi le mazzette e gli assegni con cui alcuni dirigenti della Lega – nati e residenti non certo a Roma (diciamo genericamente al Nord) – avrebbero acquistato in maniera truffaldina lauree, case e auto – nonché i loro sospettati collegamenti con la ’ndrangheta – dimostrano in maniera inequivocabile come la 'ladrona' non sia Roma, ma 'ladroni' sono tutti coloro che si adagiano e infiltrano tra le pieghe di un sistema politico (e non solo) che è in generale malato. Scrivo per dire che credo anch’io che sia giunto il momento di una rappacificazione nazionale che cancelli ogni barriera tra noi italiani (a tal fine mi piace segnalare come – saggiamente – i francesi affermino che noi non siamo 'Romani' – ovvero coevi di Giulio Cesare – ma 'italiani di Roma'). Tanto in questo senso potrebbe fare il ministro per la Coesione territoriale Barca, dal quale mi aspetto da cittadina italiana iniziative forti in tale direzione. Mi domando, infine, se sia opportuno il programma televisivo proposto ieri su Canale 5 'Benvenuti a tavola - Nord vs Sud' che, seppur in chiave ironica pare, propone ulteriori contrapposizioni attraverso gare culinarie tra chef del Nord e del Sud d’Italia.
Paola Scarsi
Un appello serio e importante, una battuta un po’ troppo preoccupata per suggellarlo. Credo infatti che le 'competizioni gastronomiche' siano tra le poche nella quale si parteggia per il piatto competitore più buono, non necessariamente per quello che conosciamo meglio... E l’Italia è straordinaria anche per la varietà dei suoi sapori, per la condivisa arte di esaltarli, per la possibilità – oggi – di gustarli indifferentemente in quasi ogni parte del Paese e, infine, per la comune curiosità di scoprirli. Una 'genovese de Roma' credo che possa averlo sperimentato... Io che sono umbro di nascita, che ormai da tempo vivo e lavoro (in)stabilmente tra Milano e Roma e che percorro non di rado (per lavoro, e per passione) la nostra Penisola mi sento di testimoniarlo.
Quanto alla serie televisiva di Canale 5, la recensione di Mirella Poggialini (che proponiamo proprio oggi a pagina 35 ) dice che si tratta di una storia intessuta attorno alla concorrenza serrata tra ristoratori, un nordista e un sudista, non di una storia di aspre contrapposizioni. E il concetto di 'concorrenza' – proprio come il verbo 'concorrere' – richiama sia il 'fare insieme' sia il partecipare a una gara. Ma non c’è contraddizione. Una gara vera è tra gente che vuole primeggiare, non tra chi punta a separarsi, a stare da solo. Una gara vera è tra gente che procede nella stessa direzione, che ha una stessa mèta e che la insegue, spalla a spalla. Ecco perché mi piacerebbe che 'concorrere' – nei suoi due grandi significati – diventasse (o, meglio, tornasse a essere) uno dei verbi nazionali. Vorrei, insomma, che lo fosse anche oltre la cerchia dei nostri luoghi d’origine, delle nostre città, delle piccole patrie (che chiamiamo anche matrie) contenute nella patria di tutti. Abbiamo davvero bisogno di concorrere, in modo sano, come cittadini di questa nazione che deve saper credere in se stessa. Concorrere nell’economia, nelle dimensioni sociali, nella ricerca scientifica, nella scuola, nella fatica di ri-fare (cioè di ri-formare) l’Italia, da italiani che hanno capito che nulla possiamo più dare per scontato: non la solidità delle fondamenta gettate dai ricostruttori del secondo dopoguerra, non l’ampio benessere realizzato dai costruttori dell’Italia del boom, non la robustezza di una democrazia che ha retto all’urto sanguinoso del terrore politico e a quello ignominioso della malapolitica.
Non possiamo più dare per scontata, arrivo a dire, neppure la forza buona, solidale e unificante della nostra antica e pur sempre vasta e profonda cultura cristiana.
Dobbiamo rimeritarci tutto, con il nostro lavoro, con la nostra vita personale e comunitaria, con la trasmissione dei basilari valori grazie ai quali solide fondamenta, ampio benessere e robusta democrazia sono stati possibili. Un compito da assolvere prendendo sul serio la sfida, ma anche non drammatizzando oltremodo le prove. Ci serve davvero un po’ più di sorriso, pure quello garantito dalla nostra screziata e coivolgente cultura del buon mangiare.
Altrimenti che italiani siamo?