Il terrorismo islamico continua a seminare orrore in Nigeria. Lo dimostra l’ennesimo massacro perpetrato nella notte tra sabato e domenica da una formazione jihadista che ha attaccato il villaggio di Izghe, nello Stato nordorientale del Borno. Al grido di "Allah Akbar", "Dio è grande", un numero imprecisato di miliziani, con ogni probabilità legati al movimento Boko Haram, ha messo a ferro e fuoco l’intero abitato, a maggioranza cristiana. Al momento, il bilancio è di oltre 100 morti, ma non è da escludere che il computo delle vittime possa salire ulteriormente nelle prossime ore. Da rilevare che tra coloro che hanno perso la vita, figurano anche una ventina di musulmani, tra cui donne e bambini. Domenica sera, i sopravvissuti, ancora sotto choc, hanno raccontato alla polizia locale che le vittime sono state sgozzate col machete o uccise a colpi d’arma da fuoco e che gli aggressori, dopo avere saccheggiato alcuni negozi e magazzini di derrate alimentari, sono fuggiti a bordo di una decina tra camion, auto e fuoristrada. Il raid è avvenuto non lontano dal confine con un altro Stato nigeriano del nordest, quello dell’Adamawa, dove molti dei superstiti hanno cercato protezione. Si tratta di una regione in cui vige lo stato d’emergenza, dichiarato dal governo di Abuja per fermare la violenta rivolta dei Boko Haram, in corso da oltre cinque anni. Da mercoledì scorso l’aviazione nigeriana, con l’appoggio di reparti della fanteria nelle retrovie, ha avviato una serie di bombardamenti a tappeto per snidare gli estremisti, non lontano dal villaggio di Izghe, nella foresta Sambisa, lungo il confine con il Camerun. Pare, dunque, che i terroristi abbiamo colpito non solo per intimidire il nemico, ma soprattutto per riproporre sul campo le dinamiche di una guerra asimmetrica che sta causando morte e distruzione.
Ma chi sono davvero i famigerati Boko Haram? Il loro obiettivo è quello di destabilizzare l’intera nazione, strumentalizzando la religione per fini eversivi. Letteralmente, "Boko" vuol dire "falso, menzognero" mentre "Haram" in arabo significa "peccato, crimine". Il nome ufficiale della formazione in realtà è "Jamà atu Ahlis Sunna Lidda’ awati wal-Jihad", che in lingua araba vuol dire "Gente dedita alla diffusione degli insegnamenti del Profeta e al Jihad". La maggioranza di coloro che militano nel movimento è priva d’istruzione anche se i loro finanziatori navigano nell’oro. A parte un coinvolgimento del salafismo saudita, lo stesso che ha foraggiato alacremente al-Qaeda, vi sarebbero, come vedremo più avanti, complicità interne al "sistema Paese", sia nelle forze armate nigeriane sia anche nel Parlamento federale. E stiamo parlando di una nazione che galleggia sul petrolio, con oltre 250 gruppi etnici, ma in cui l’unico vero collante, a parte i confini geografici, è rappresentato da un ordinamento costituzionale di tipo federale, che dall’indipendenza ad oggi è passato ripetutamente dalla gestione civile a quella militare. La frammentazione interna alla società nigeriana ha fatto sì che si affermassero col tempo oligarchie in forte competizione. Ciò ha determinato una gestione clientelare delle risorse di oro nero e acuito a dismisura la povertà della maggioranza della popolazione. Questo concretamente significa che il 60% dei nigeriani sopravvive con due dollari al giorno. E dire che questo Paese ha riserve petrolifere stimate in 36 miliardi di barili, mentre per il gas si parla di 5.200 miliardi di metri cubi. A garantirne lo sfruttamento di tale ricchezza sono le compagnie petrolifere straniere che beneficiano di contratti estremamente vantaggiosi. Eppure, i proventi dell’oro nero quasi mai sono stati utilizzati per la comunità da parte dei vari governi.
È dunque evidente che l’esclusione sociale rappresenta il terreno fertile per ogni genere di fondamentalismo. In questo inferno di dolore, a pagare il prezzo più alto sono le comunità cristiane sempre più nel mirino dei terroristi, ma anche vasti settori della società civile e delle stesse istituzioni governative. I Boko Haram vorrebbero imporre la sharia (la legge islamica) a tutta la Repubblica Federale, che finora ha goduto di una costituzione garante della laicità delle istituzioni politiche. Il problema di fondo è che la sharia è già stata introdotta nella Nigeria settentrionale ben 14 anni fa, in flagrante violazione del dettato costituzionale. Si trattò, a detta di autorevoli osservatori, di una debolezza dell’allora presidente Olusegun Obasanjo (cristiano), sul quale pesa la responsabilità storica di aver ceduto alle pressioni dei poteri forti che intendevano minare la stabilità nazionale. In questi anni, l’episcopato cattolico ha fortemente criticato la decisione di Obasanjo, ricordando che nel Corano non v’è traccia di sharia. È menzionata invece nella Sunna, ovvero la tradizione del profeta Mohammed, da cui molti giureconsulti conservatori attingono, prendendola alla lettera, senza però tenere conto del contesto storico.
In queste settimane, l’attuale presidente, Goodluck Jonathan, sta tentando di fare piazza pulita di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno fallito nella lotta contro l’estremismo islamico e la corruzione dilagante nelle istituzioni. Dopo aver silurato in gennaio i vertici delle forze armate e nominato 12 ministri in sostituzione di quelli da lui giudicati inefficienti, la settimana scorsa ha addirittura licenziato il suo capo di gabinetto, Mike Oghiadomhe, altro tassello di una serie di cambiamenti nei vertice del Paese. I detrattori del presidente lo accusano di essersi accorto troppo tardi delle inadempienze dei suoi collaboratori, poco importa se politici o militari, non foss’altro perché non è ancora riuscito a sconfiggere i Boko Haram. La sua intenzione, prima della fine del mandato, è quella di ridurre la forza dei fondamentalisti, salvaguardando la propria reputazione. Ma il cammino è tutto in salita. La crisi saheliana, che ha investito il Mali, come anche i fiorenti traffici di armi e munizioni dalla Libia del "dopo Gheddafi", stanno determinando uno sconvolgimento geopolitico che dovrebbe spingere la diplomazia internazionale a un maggiore impegno in favore della sicurezza e della stabilità del Sahel e dell’intera Africa subsahariana. Perché il jihadismo, parafrasando un proverbio africano, è come «quel serpente che ha già posto le sue uova nel nido delle aquile».