Davanti all’orrore delle immagini e delle storie dei massacri, nella guerra brutale scatenata da Hamas contro Israele, si resta inorriditi e senza parole. Le stragi compiute da Hamas sono frutto di una precisa strategia terroristica nutrita da un racconto unilaterale e vittimistico sul destino dei palestinesi, basato sul bipolarismo dell’odio. Hamas punta a dimostrare che uccidere in gran numero civili israeliani sia politicamente giustificabile ma non lo è mai, soprattutto se si tratta di bambini. Questi metodi sono simili a quelli dell’Isis: fatti per suggestionare e terrorizzare. Ai suoi capi non interessa il prezzo pagato dai civili palestinesi, loro ostaggio. Per Hamas ogni israeliano è un nemico da abbattere e ogni palestinese un potenziale “martire” nel mercato del terrore. I suoi capi sono al sicuro in alcuni Paesi del Medio Oriente.
Hamas vuole il potere assoluto sui palestinesi dell’intera area geografica, compresi quelli israeliani, combatte la normalizzazione degli accordi di Abramo, provoca la forte reazione israeliana (peraltro prevedibile), fa dei rapiti uno scudo umano. Questa ennesima guerra sta diventando la più crudele, dal 1948 in poi, perché è tutta contro i civili e i bambini.
Rimarrà nella coscienza del popolo di Israele come una ferita difficilmente rimarginabile. Segnerà la fine di un’intera generazione di Gaza. Come amici di Israele e della pace, abbiamo il dovere di chiederci come curare quest’odio e il desiderio di vendetta che lo nutre, covato da un clima di ostilità che dura da troppo tempo in una terra, come Gaza, dove la vita è impossibile e senza futuro. Non possiamo illuderci di «rimanere sani in un mondo malato» - ha detto papa Francesco.
Servono immediate strategie per risparmiare il sangue, iniziando dagli innocenti. Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken ha dichiarato a Gerusalemme che «va presa ogni precauzione per evitare che i civili vengano colpiti». Si riferiva agli ostaggi israeliani, ai civili israeliani minacciati dai razzi di Hamas, ma anche ai civili palestinesi, ora senza luce e acqua, senza medicine e cibo, ingabbiati nella striscia di Gaza o incolonnati per rispondere all’ultimatum di Israele abbandonando il Nord. Qui il 60% degli abitanti sono minori, presi tra la violenza di Hamas e le ritorsioni di Israele.
La loro morte non avvantaggia nessuno né può corrispondere a nessun beneficio. Ma sono loro, dopo le vittime israeliane, a pagare. Va rispettato il diritto internazionale umanitario, sancito dalle convenzioni di Ginevra e dell’Aja, che obbliga «le parti in conflitto ad adottare tutte le misure possibili per proteggere la popolazione e i beni civili» così come vieta «l’impiego di civili come scudo di protezione». Quindi non si può ridurre alla fame e alle sete una popolazione. Le proposte egiziane e di altri Paesi sui corridoi umanitari per rifornire Gaza o evacuare i civili sono importanti per aprire un varco nell’escalation militare. Gli Stati Uniti devono usare la propria influenza per contenere la reazione militare in termini ragionevoli.
Anche la Santa Sede è pronta alla mediazione per gli ostaggi e gli innocenti a Gaza. Occorrerà poi nel medio termine tornare alla politica: la soluzione dei due Stati immaginata tanto tempo fa e mai realizzata. L’Autorità nazionale palestinese deve uscire dal letargo di questi anni e divenire un interlocutore valido. Il Parlamento israeliano deve trovare un difficile consenso bipartisan sui piani di pace. L’odio esploso in questi terribili giorni non può garantire alcuna sicurezza per nessuno: solo la politica può farlo. C’è una lezione da apprendere dai decenni di negoziati interrotti o incompleti: ogni volta che si è tentato di strappare di più o di concedere di meno si è ottenuto l’effetto opposto.
Oslo, Camp David, la “Road map for peace”, hanno segnato importanti novità politiche, ma tanto di quelle decisioni è naufragato nel bipolarismo dell’odio e del rancore, provocando stanchezza anche nella comunità internazionale. Il clima bellicista, che si va affermando nel mondo, con la guerra in Ucraina ma anche nel Nagorno Karabakh, in Africa, Siria, Libia e Yemen, non deve stordirci. Lo stordimento porta all’idea che la guerra sia l’unico strumento nelle nostre mani. Così si lasciano incancrenire le crisi: si preparano le guerre di domani. Non esistono i conflitti congelati: esistono solo crisi che vanno assolutamente concluse con la pace. E oggi la pace in quest’area del Mediterraneo non può che venire da uno sforzo congiunto di Paesi volenterosi che hanno a cuore le sorti del mondo.