L’uno-due per le presidenze del Parlamento consegna agli annali l’immagine di un centrodestra (o destracentro che dir si voglia) volitivo, determinato a "prender tutto" come nelle attese, persino deciso a voler stupire con le scelte operate, per i caratteri e le storie delle figure elette. Persino più del Senato, tiene banco e fa molto discutere l’elezione a Montecitorio di Lorenzo Fontana, nome impostosi nelle ultime ore e personalità ricca di spunti e di opinioni, alcune delle quali anche vicine alla sensibilità cattolica, accanto ad altre destinate inevitabilmente a essere fonte di contrasti. Come testimoniato già dai 14 voti venutigli a mancare nella sua stessa maggioranza e dai mancati applausi della sinistra.
Una figura divisiva e d’impatto, quindi, eppure proprio per questo fortemente voluta rispetto a opzioni differenti che avrebbero potuto avere un’altra accoglienza. Un nome voluto quasi per spavalderia – verrebbe da dire –, per far capire con plastica nettezza che, dopo la vittoria del 25 settembre, con questa coalizione "si cambia spartito" e il cosiddetto "mainstream" imperante fino a ieri è destinato a essere spazzato via. Colpiva in effetti, ieri a Montecitorio, la piena contentezza e l’orgoglio che veniva sbandierato soprattutto dal nuovo asse formato da leghisti e meloniani per l’aver portato a casa in 48 ore appunto la "partita-presidenze", in modo da potersi dedicare ora a quella, ben più ampia, del governo da formare.
L’elezione di Fontana è avvenuta, per di più, senza la "luce" incarnata a Palazzo Madama, il giorno prima, dalla fulgida testimonianza dell’orazione civile di Liliana Segre e della sua "staffetta" con Ignazio La Russa, in sé un’immagine-simbolo di quella democrazia matura e completa che l’Italia è e che meriterebbe di essere fatta emergere sempre. Per Fontana si è sprecata ogni sorta di definizione: omofobo (come recitava ieri lo striscione esposto in aula da alcuni parlamentari del Pd), sovranista, retrogrado, con simpatie per i neo-nazi greci di Alba Dorata e per Putin. Il Pd è arrivato a parlare di «sfregio» e ora vuol contrapporre una vicepresidenza Zan. Il gioco delle contrapposizioni sfrenate non aiuta mai e le definizioni possono lasciare il tempo che trovano. Saranno i fatti a dover smontare questa escalation preventiva sulla nomina del presidente Fontana. Al quale, come a tutti, va concesso il credito della "grazia di stato" per lo svolgimento del suo alto e delicato ruolo al vertice della Camera dei deputati. Così come sono i fatti a testimoniare che il suo lascito da ministro della Famiglia non fu pari all’impegno annunciato.
Ha colpito, in particolare, nel discorso d’insediamento, il richiamo alla «diversità» come «grandezza dell’Italia» ed elemento da «sublimare nell’interesse dell’Italia»: indubbiamente un passaggio chiave. E uno dei compiti di Fontana, primo leghista a presiedere un ramo del Parlamento dopo la giovanissima Pivetti nel 1994, sarà quello di esercitare in positivo tale concetto, senza alimentare esclusioni.
C’è poi un altro aspetto che colpisce, sul piano politico: ed è l’assenso dato senza esitazioni da Meloni a Fontana. Atto che conferma l’idea di una leader di Fdi non tanto paziente e diplomatica “regista” di coalizione, ma “regina”. Con Matteo Salvini suo “primo cavaliere”. E con entrambi determinati a spartirsi quel che resta di Forza Italia, ex partito egemone, oggi soggetto ridimensionato e contraddittorio, incapace di emanciparsi dall’86enne Silvio Berlusconi e dalla sua parabola calante. Un alleato messo spalle al muro già il primo giorno della nuova legislatura (ipotesi che sarebbe confermata dalle frasi amare su Meloni presenti nel foto-ingrandimento degli appunti del Cavaliere in Senato e dalla successiva, puntuta replica di Giorgia sulla sua «non ricattabilità») può far prefigurare addirittura una sorta di “appoggio esterno” dei forzisti all’esecutivo che sta per nascere. È un’eventualità che Giorgia Meloni dovrebbe scongiurare: perché l’interesse del Paese, alle prese con una crisi socio-economica e bellica senza precedenti, richiede un governo il più possibile stabile, efficace e unitivo. Non è di fratelli-coltelli che l’Italia ha bisogno ora. Ma le due destre del centrodestra che fu hanno cominciato a prendere tutto. Non sarà facile tenere insieme tutto.