Dopo mesi di scontri attorno a Sirte, la roccaforte di Daesh in Libia, si è infine mossa l’aviazione statunitense, con un attacco contro mezzi militari e strutture jihadiste, che è stato esplicitamente richiesto dal governo di accordo nazionale, guidato dal primo ministro Fayez al-Sarraj. L’importanza di questi bombardamenti mirati ha certo un valore militare, dato che aiuta le "variopinte" milizie che sostengono il governo nei loro tentativi di riconquista della città, ma soprattutto deve essere letta per le sue implicazioni politiche.Il governo al-Sarraj, nato mesi fa con il sostegno internazionale e italiano in particolare, fatica ancora a essere riconosciuto da tutti i principali attori dell’intricato mosaico libico, in cui le fazioni e le milizie sono in perenne fibrillazione. Fondamentale, per il primo ministro, è quindi riuscire a ottenere un successo sul campo, riconquistando Sirte. Tuttavia, erano evidenti le difficoltà nello sconfiggere definitivamente le milizie jihadiste: nonostante limitati progressi, il logorio delle forze attaccanti (lo strano mix di milizie di Misurata, di Zintan e le "guardie petrolifere" del federalista Ibrahim Jadran) destava crescenti preoccupazioni; da qui la decisione statunitense di scendere apertamente in campo a fianco. Dimostrando il sostegno internazionale verso al-Sarraj, che è un fattore non trascurabile nella ragnatela di tatticismi interni e che potrebbe spingere qualche attore locale, finora titubante, a sostenere il governo. Ma che allo stesso tempo – poiché nel marasma libico ogni decisione produce risultati dicotomici – presenta anche delle controindicazioni: diverse milizie e movimenti politici erano infatti contrari a ogni intervento militare straniero; questo potrebbe essere usato quale scusa per tentare di delegittimare il primo ministro.Il lungo silenzio sulla Libia che ha preceduto questi bombardamenti, ci offre comunque delle risposte, perlomeno parziali. L’Italia e la diplomazia Onu hanno per mesi lavorato sottotraccia per irrobustire al-Sarraj e, soprattutto per evitare un conflitto con il generale Haftar. Questi è il campione della lotta contro gli islamisti, molto sostenuto da Egitto, monarchie arabe del Golfo e dalla Francia. Nonostante si consideri "la soluzione" contro l’anarchia libica, in realtà egli è una parte integrante del problema. Le sue truppe muovono da Est verso Sirte, prendendo sì in una morsa i guerrieri di Daesh, ma rischiano di scontrarsi con le forze governative di Tripoli. Il rischio sembra scongiurato: le forze di Haftar sono ferme da tempo, evidente frutto delle pressioni internazionali.È certo quindi che l’azione di Washington sia stata concordata con le altre potenze internazionali: l’Italia, per esempio, ha concesso l’uso della base di Sigonella per le operazioni aeree, sia pure con precise limitazioni (solo raid concordati con noi e richiesti da Tripoli, no a azioni unilaterali). Mentre sono note le attività politiche, di intelligence e delle forze speciali di vari Paesi europei. Tutto ciò può significare la ripresa di una forte azione diplomatica e di stabilizzazione della Libia nell’autunno, nel tentativo sia di stroncare la forza di Daesh nel Paese, sia di far emergere il governo al-Sarraj come interlocutore unico per la comunità internazionale.Ma le molteplici passate delusioni ci inducono alla prudenza. L’azione militare dell’amministrazione Obama, che per anni aveva demandato a noi europei la "pratica Libia", dimostra ancora una volta che, senza Washington, la capacità operativa dell’Unione Europea è minima. E che per togliere le castagne dal fuoco sempre sugli Usa dobbiamo contare. Ma non sembrano del tutto chiare neppure le convergenze d’azione fra i tre Paesi europei più attivi in Libia, ossia Italia, Francia e Gran Bretagna. In passato, le rivalità incrociate avevano avvelenato i pozzi della collaborazione. C’è da sperare che i disastri di questi anni abbiamo portato consiglio. Da noi come lungo la sponda araba del Mediterraneo: perché senza una volontà di risolvere l’anarchia di Libia che venga anche dagli attori locali e regionali, ogni azione di riconciliazione è destinata al fallimento. Bombe e logiche di guerra non basteranno mai.
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