Avevano fatto la coda per ore per la prima notturna di
The Dark Knight Rises, gli spettatori di Denver, Colorado.
C’erano padri cresciuti con i fumetti di Batman, e figli venuti su con i videogiochi dell’uomo pipistrello, il miliardario che si trasforma in giustiziere mascherato per combattere i cattivi. Ci si può immaginare l’attesa dei ragazzini davanti al cinema, a mezzanotte, eccitati. Forse quel biglietto da cento dollari era un premio? «Papà, per la promozione voglio vedere il nuovo film di Batman». E poi la Coca e il pop corn, e la colonna sonora forte, assordante, da epopea, da ultima battaglia. Qualcuno per qualche istante ha creduto a una trovata pubblicitaria, e che l’uomo entrato in sala vestito come Bane, il supercattivo, il grande nemico di Batman, facesse parte dello show. Maschera antigas e giubbotto antiproiettile, lanciava fumogeni. Forse sul viso di qualche ragazzino per un attimo si è acceso un sorriso emozionato? Poi, lo sconosciuto ha sparato.
Guardando le facce, mirando a uno e a quello accanto no, come obbedendo a una sua folle imperscrutabile logica. Solo dopo lunghi sbigottiti secondi la gente ha capito che non era un gioco, e ha cominciato a fuggire.
Dietro alla maschera, hanno trovato un ragazzo di 24 anni, incensurato. Quale delirio è silenziosamente maturato in un ventenne all’apparenza come tanti? A 30 chilometri da Denver, a Columbine, 13 anni fa due studenti uccisero 13 compagni di scuola e si spararono. Pare una follia che cova sotterranea come un sisma, e torna, e uccide, nella medesima terra. Ma questa volta l’impressione è forse ancora più profonda, perché è come se la finzione, come se la maschera di una saga dark fosse uscita dallo schermo; improvvisamente reale, e feroce, davvero; e assassina, davvero. Sembra un incubo la notte di Denver, di quelli da cui ci si risveglia di soprassalto, e occorre qualche istante per prendere le distanze dai propri fantasmi interiori. Lo choc di Denver è nella metamorfosi: di colpo il sogno, il virtuale si è fatto reale.
E fa pensare, il fatto che l’epopea di Batman cominci, nell’immaginazione dei suoi creatori, da un ragazzino che assiste all’omicidio dei genitori all’uscita di un cinema dove ha visto un film di Zorro (anch’egli un giustiziere, buono, e però pure lui mascherato). Quel dramma porta il personaggio Bruce Wayne a farsi segretamente Batman, l’eroe in lotta perenne contro i cattivi. Batman dunque è la storia di un ragazzo ferito dal male che per tutta la vita, incatenato a un ricordo, combatte il male con la sua forza: e coltiva strenuamente il vigore fisico, per sconfiggere il nemico. Un superuomo dai buoni intenti, ma in realtà così impotente; giacché è coscienza non solo cristiana, ma semplicemente realista, la consapevolezza che gli uomini non riescono, con le loro sole forze, a liberarsi dal male.Nella notte di Denver c’è così l’eco di una atroce beffa: il male da maschera virtuale si fa carne e ossa di un uomo, e spara – davvero; e uccide – davvero. Restano a terra anche dei ragazzini, nell’urlo straziato delle madri. Com’è stato possibile? Batman è un soltanto un fumetto. Favola sottilmente ambigua però, che vellica, nell’America del libero porto d’armi, fantasie di onnipotenza, di una giustizia da semidei che si impone con la forza; gioco al buio, incrocio di fantasmi che in una mente malata l’altra notte hanno preteso e imposto di farsi realtà. E lo sappiamo che anche noi, in tanti almeno, siamo affascinati da storie oscure, doppi volti, misteri, tanto che collettivamente, quasi con spensierata innocenza li frequentiamo sullo schermo. È un gioco, diciamo. Gioco però che trova risonanza in qualcosa, dentro di noi, di profondo.
Nietzsche, il filosofo del superomismo, scrisse: quando guardi l’abisso, l’abisso ti guarda. Forse è ciò che è accaduto a un ragazzo troppo solo, troppo silenzioso alla periferia di Denver, Colorado.