Caro direttore, la Medicina nel XX secolo ha fatto progressi enormi, sia sul piano diagnostico che terapeutico. Sono state vinte molte battaglie contro malattie infettive che devastavano intere popolazioni; si sono trasformate molte patologie a esito mortale in croniche, che senza guarire del tutto consentono ai malati un’accettabile qualità di vita; l’età media si è allungata, consentendo di mantenere un buon livello di partecipazione alla vita sociale e familiare.
Ma più si cerca di soddisfare alcune esigenze più ci si deve confrontare con quella nostalgia dell’assoluto che c’è nel cuore di ognuno. Il malato di oggi ha molto di più rispetto al malato di ieri: più prevenzione; diagnosi più precoci; terapie più efficaci e spesso fortemente personalizzate. Scienza e tecnica ruotano intorno a lui in una girandola di interventi che un bravo medico gestisce come un regista in una stanza dei bottoni, prendendo decisioni che risolvono le sue difficoltà, o almeno provano a farlo. Ma spesso il malato oggi soffre di una sindrome di spersonalizzazione che non gli consente di cogliere il significato di ciò che lo ha colpito.
Non è più in grado di rispondere alla domanda sul perché della malattia, e ancor meno alla domanda del perché a me questa malattia... Resta immerso in un guazzabuglio di emozioni, che accentuano la sua sofferenza. E spesso questa solitudine interiore gli impedisce di riconoscere la mano tesa di amici e familiari, percepiti a volte come inadeguati. Raramente tenta di fare un salto sul piano soprannaturale, cercando di intercettare un dialogo personale con il Signore, che gli sembra troppo distante. E quindi la sua malattia continua ad apparirgli come una ingiusta punizione, a cui manca il più importante dei rimedi: scoprirne il perché. Non il come, in cui medici e ricercatori i diventano sempre più capaci e competenti, ma il perché. Il senso che lui cerca annaspando e che pesa su di lui come un macigno difficile da sopportare, soprattutto quando pone alla sua vita vincoli che ne compromettono autonomia e libertà.
Qual è allora il profilo della “cura” più necessario e attuale? Quello che pone a disposizione del paziente anche relazioni che riescano a essere un vero sostegno nella sofferenza. Occorre tutelare la soggettività della persona sofferente, anche se questo approccio dovesse collidere con obiettivi economici che sembrano schiacciare la singolarità del malato. Non si può infatti ridurre il diritto alla salute, previsto dalla Costituzione, a un prodotto misurato sul costo delle prestazioni. Il punto chiave è provare almeno a chiedersi chi è questo malato che ha bisogno di cure, prima ancora di domandarsi di quali terapie ha bisogno. Invece oggi, in omaggio a una tecnologia sempre più avanzata, guidata dall’Intelligenza artificiale che pretende di gestire i processi decisionali sulla base di un algoritmo, si finisce sempre più spesso col rispondere ai bisogni del malato con logiche remote rispetto alla sua sensibilità, alla sua emotività, alla sua ricerca di valori e di senso.
L’esperienza della malattia, della fragilità e della precarietà creano un singolare richiamo che evoca anche il timore della morte e il suo significato. Ecco perché è necessaria un’adeguata preparazione del personale sanitario e dei clinici al riconoscimento dei bisogni spirituali dei pazienti, e anche alla collaborazione con i cappellani, che svolgono l’attività di assistenza come specialisti della cura spirituale, integrati tra le risorse assistenziali. Il grave dolore fisico può ostacolare la preghiera, la speranza e la fede.
C’è una spiritualità della cura particolarmente densa di valori, ad esempio nelle cure palliative. È quando il malato, e spesso l’intera famiglia, percepiscono la netta inversione del rapporto tra tecnologie, necessarie ma insufficienti, e bisogno di aprirsi alla trascendenza, a cui solo il rapporto con Dio può offrire risposta. Quando la vita sembra sfuggire di mano, e perciò appare sempre più preziosa, allora il suo significato si spalanca in una prospettiva d’infinito, e si comprende perché l’antica saggezza della Chiesa ripeta: Vita mutator, non tollitur! (la vita è trasformata, non tolta).
Ma per accettare la morte occorre riconciliarsi con il dolore, la vita e gli altri. Proprio quando siamo meno autonomi, quando si eclissa il mito della autosufficienza, riemerge con forza quella dimensione della solidarietà, dell’amicizia e della fraternità che fa riecheggiare tutta la potenza dell’ultima preghiera del Signore: « Ut omnes unum sint... » (che tutti siano uno). E allora il dolore, la sofferenza, la ma-lattia e la stessa morte diventano precisamente ciò che dà significato alla vita: non siamo più soli. E la malattia non è più un incidente di percorso, ma un tempo e un luogo di cura e incontro che rivela alla persona la verità su sé stessa e sul suo mistero.
Neuropsichiatra e storica della Medicina già parlamentare della Repubblica