C’è l’Italia con tutti i suoi volti, i vecchi vizi e i tanti errori di prospettiva nella vicenda dei cosiddetti «esodati», protagonisti ieri della manifestazione nazionale a Roma.
Questione emblematica sotto diversi aspetti, a cominciare dalla difficoltà a condividere un dato numerico univoco. Per il ministro gli ex lavoratori in attesa della pensione sono 65mila come stabilito dal decreto Milleproroghe. Per il sindacato alcune centinaia di migliaia in più, fino forse a quei 357mila ipotizzati nei giorni scorsi. In realtà, la differenza non sta nel calcolo, ma nella sostanza di chi abbia o meno il diritto di accedere, in deroga, ai vecchi requisiti previdenziali, perché non si trovi a breve senza stipendio, senza sussidi e senza pensione. Il ministro Fornero sembra voler delimitare con fermezza il campo a quei lavoratori che hanno sottoscritto accordi collettivi di uscita, a fronte di crisi o esuberi aziendali. Anche perché, se i calcoli approvati dal Parlamento sono giusti, per mandare in pensione questa platea di 65mila ex lavoratori, serviranno 5 miliardi di euro in 7 anni. Se quindi si volessero accantonare risorse per 'coprire' 357mila persone senza lavoro né pensione i miliardi di euro da stanziare dovrebbero diventare il quintuplo, ben 25. Proviamo, per un attimo, a pensare quale eccezionale volano di sviluppo sarebbe investire una cifra simile sui giovani, sulla loro capacità di creare nuove imprese o di qualificarsi maggiormente. 25 miliardi in 7 anni, qualcosa di mai visto. Anche perché, senza voler accendere l’ennesimo scontro generazionale, mai si è investito davvero sui giovani, preferendo sempre la difesa dei più anziani, che sono la maggior parte degli iscritti ai sindacati e degli elettori dei partiti.
Torniamo alla realtà. Dalle diverse situazioni della platea 'allargata' degli esodati, emergono con plastica evidenza tante altre contraddizioni in cui il nostro Paese resta immerso. Se si escludono le chiusure vere e proprie, infatti, questi 'esodi' altro non sono che i vecchi prepensionamenti. Attraverso i quali le aziende scaricano sul sistema previdenziale le operazioni di svecchiamento della manodopera e di riduzione del costo del lavoro. Imprenditori che di giorno tuonano contro la spesa pubblica e per l’innalzamento dell’età pensionabile, di notte 'scaricano' i 50enni, e le proprie difficoltà, sui bilanci pubblici. E ancora, ritroviamo vecchi vizi. Come alle Poste, dove il presidente ammette candidamente che molti lavoratori 'anziani' hanno accettato di andare in mobilità verso la pensione in cambio dell’assunzione dei figli. Per la società pubblica (seppure spa di diritto privato) il posto di lavoro resta un affare di famiglia che si trasmette come un’eredità e con i costi di transizione a carico della collettività. Proviamo a domandarci: chi sarebbe più 'giusto' tutelare? Questi esodati o quelli che non hanno stretto un’intesa, non hanno avuto neanche un euro di incentivo, ma semplicemente hanno perso il lavoro e non hanno la pensione?
Potremmo chiedere anche noi 'pensione per tutti' come si è sempre fatto in passato. Verrebbe spontaneo chiederlo guardando ieri il volto di tanti ex lavoratori senza più certezze. Ma dovremmo farlo avendo l’onestà intellettuale di indicare dove reperire le risorse necessarie, senza penalizzare ancora una volta le generazioni più giovani, che di certezze previdenziali ne hanno infinitamente meno. I partiti che lo propongono rinuncino subito al finanziamento pubblico diretto, il sistema delle imprese, all’origine del fenomeno, accetti il taglio di alcune delle agevolazioni che pesano per miliardi sulle casse dello Stato. In alternativa, si metta in campo un piano di ricollocamento al lavoro, chiamando le aziende a contribuire. E per tutti quelli che non riusciranno a ritornare in attività, si preveda il pagamento del sussidio di disoccupazione fino al pensionamento secondo i nuovi criteri.
La comunità deve sapersi far carico di ogni singola persona in difficoltà. Ma non si può continuare all’infinito a scaricare i problemi sul sistema previdenziale, arrivato a pesare per un terzo dell’intera spesa pubblica (interessi sul debito esclusi). O continueremo a proteggere le certezze e le distorsioni del passato, senza mai poter investire sulla crescita e il cambiamento futuro. La coperta è corta, usiamola bene.