«Ci vorrebbe una guerra». Era una frase che mio padre ogni tanto ripeteva quando ero bambino, ovvero negli anni 60. Lo diceva soprattutto quando c’erano degli sprechi nel cibo, quando avanzavamo qualcosa nel piatto. Era nato nel ’27, perciò si ricordava bene come si stava durante la guerra. Per essere esatti diceva «la Grande Guerra» e intendeva non la Prima bensì la Seconda guerra mondiale, quella che recò a lui e alla sua famiglia tanti dolori e amarezze: non solo per il periodo 1939-45 ma anche per quello immediatamente successivo. Quelle parole di mio padre non mi preoccupavano, anzi, mi intenerivano.
La guerra per me era qualcosa di impensabile, di non contemplato, fuori da ogni orizzonte esistenziale. Negli anni successivi, quando da adulto ripensavo a quell’espressione di papà ci trovavo un dolore sconosciuto, una zona della sua anima nella quale si ritirava quando diventava per lui incomunicabile il proprio disagio davanti al nostro capriccio: sprecavamo del cibo senza sapere cosa fosse l’angoscia che sperimenta chi ha fame e non sa trovare nulla da mangiare. Credo che la fame quotidiana, continua e irrisolvibile fosse alla base dell’angoscia che provava chi aveva vissuto la guerra rimanendo in una grande città, cioè non andando al fronte.
Ho diversi racconti di persone vecchie, anzi ormai morte, che parlano della fame patita durante la guerra. Mia nonna mi raccontava del cibo che gli uomini si contendevano con i piccoli animali domestici che per lei non erano i cani o i gatti o i pesci dell’acquario, ma le galline e il maiale. Cercava di tenere il cibo commestibile per i figli e dava pastoni improbabili agli animali sperando che facessero il miracolo di convertirli in uova o in salumi. Ricordo anche un signore romano che mi raccontava come, quando avvistò gli alleati transitare per la capitale, visto che con loro c’era la garanzia del cibo, non ci pensò due volte a seguirli verso il Nord, lasciando senza notizie per quasi un anno il resto della sua famiglia che lo diede per morto fino a che non lo vide tornare in salute e grassottello.
Racconto questi fatterelli perché andare a quei ricordi è la mia personale strategia per tenere a bada l’angoscia della guerra. È poca cosa, lo so bene. L’angoscia più terribile infatti riguarda l’ignoto e nessuno di noi, per fortuna, sa cosa sia la guerra. Non servono i film apocalittici né i romanzi. Il vero racconto, la vera parola che salva è quella che va di bocca in bocca, quella che narra la mia vita alla tua vita, la vita del padre a quella del figlio. L’esperienza della guerra per fortuna ci manca: per questo la possibilità del suo arrivo ci angoscia ancora più dell’angoscia alla quale sappiamo dare nome.
La paura si cura in un solo modo: guardandola. La paura non ama gli sguardi. La paura fa sbarrare gli occhi, vuole le pupille vuote, ma non vuole essere guardata. Perché la paura è codarda. Ha bisogno del buio per nascondere la verità. Ha bisogno di poca luce perché vuole che la realtà faccia delle ombre enormi, lunghissime. Proprio l’impossibilità di affrontare a viso aperto la paura della guerra è ciò che ce la rende ancor più spaventosa. Il dolore di un esame, di una malattia, di un lutto, della disoccupazione, di un licenziamento può essere dominato o per lo meno controllato perché lo conosciamo, l’abbiamo già vissuto, e se non ci è già capitato quel dolore comunque sappiamo dove trovare un amico, un fratello che ne abbia fatto qualche tipo d’esperienza. La paura, per vincere e prosperare in noi, ha bisogno della solitudine, perché basta un abbraccio per scacciarla. Ma nel caso della guerra proprio l’abbraccio di chi ci è già passato è quello che ci manca.
L’unica risorsa vera e concreta è quella della Fede. Una volta che abbiamo allontanato da noi l’idea artefatta, cosmeticamente artificiale, che il credente per il semplice fatto di credere sia esentato dall’angoscia, possiamo addentrarci nell’angoscia di Cristo. Gesù prova angoscia nell’orto degli Ulivi dove la sua anima è triste «fino alla morte» (cfr. Mt 26); la Madonna dice che il medesimo sentimento d’angoscia ha attraversato l’anima sua e di Giuseppe quando smarrirono il Figlio al Tempio (cfr. Lc 2). Ecco l’abbraccio che dobbiamo cercare, l’unico abbraccio che in momenti come questi mi sento davvero di consigliare.