La vita faccenda seria non il delirio di narciso
domenica 17 ottobre 2021

Caro direttore,
a leggere e rileggere l’articolo «Eutanasia e cannabis: successo online» ('Avvenire', 19 settembre) si prova una sorta di incredulità. Colpisce lo stupore per la rapida e massiccia adesione del mondo giovanile alla raccolta di firme per la legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia. Se si riflettesse sui fatti di cronaca che si ripetono con cadenza regolare, ci dovremmo stupire del contrario. Non è un caso che sulla 'buona morte' i radicali – con Emma Bonino in prima fila – rivendichino con orgoglio il successo delle loro campagne politico-mediatiche. Sdoganare la morte, somministrata dallo Stato su richiesta di chi è colpito da malattie incurabili. è diventato un dogma.

Mentre si nega il potere di dare la morte a chi abbia commesso gravi crimini ('Nessuno tocchi Caino' il fortunato slogan che ha raccolto consensi e plauso), si invoca paradossalmente dallo Stato il diritto di ricorrere all’eutanasia. Tuttavia la rivendicazione del diritto di disporre liberamente del nostro corpo appare irricevibile. Si basa infatti sul presupposto che possiamo brutalmente riassumere così: 'La tua vita è solo tua e nessuno può impedirti di disporre di te come credi'. Ma sappiamo bene che siamo solo un anello della lunga catena genealogica che ci ha 'prodotti'.

Non siamo venuti al mondo per un atto astratto della nostra volontà in un processo di autopoiesi .Senza contare che un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde. L’adempimento di un diritto non proviene da chi lo possiede, ma da coloro che si riconoscono nei suoi confronti obbligati a qualcosa. Chi può sentirsi obbligato a dare la morte a un altro vivente? Un medico? Certo, rimane aperta la questione del dolore. «Nessuno sano di mente vuole soffrire», ha sottolineato Francesco Ognibene su queste pagine, e tuttavia ogni vivente fin dalla nascita sperimenta il dolore nel passaggio dal corpo materno caldo e protetto al mondo esterno.

Attenuare la sofferenza fisica e psichica è possibile e desiderabile. La medicina moderna e la ricerca hanno fatto passi da gigante in questo campo, e gliene siamo profondamente grati, ma far credere che la vita sia un parco giochi dove l’unico imperativo è il piacere, il godimento senza fine dal primo vagito all’ultimo respiro, è tutta un’altra storia. Averlo fatto credere è, per l’appunto, una delle ragioni dell’enorme diffusione dell’uso di droghe. Le generazioni passate erano ben consapevoli che la vita è una faccenda seria. Essa comporta impegno, sacrifici, rinunce, fatica, frustrazioni. Certo anche gioie e soddisfazioni, ma non esclude dall’orizzonte del vissuto i dolori. Questa consapevolezza si è persa. I genitori non la trasmettono più ai loro figli.

Al contrario, nell’entusiasmo seguito alle rivolte giovanili degli anni 60 del Novecento, all’insegna del 'vietato vietare', si è imboccata la strada del 'tutto è possibile': non si devono porre limiti al desiderio di onnipotenza, in un crescendo rossiniano di delirio narcisistico. Da qui non solo lo sdoganamento di alcol e droga fin dalla prima adolescenza ma anche la diffusione dei cosiddetti 'rave' per cercare di prolungare all’infinito lo sballo. In questa deriva, la politica – incurante del bene comune – ha svolto il ruolo di cattiva consigliera. Ha contribuito a far perdere l’orientamento, attraverso la diffusione di programmi televisivi e film, ha dato credibilità alla pedagogia prêt-à-porter secondo cui lo studio deve essere soprattutto 'divertente'. Del resto, lo sviluppo dell’economia mondiale globalizzata ha bisogno non di donne e uomini consapevoli, ma di consumatori ciechi. Vogliamo finalmente invertire la rotta?

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