De Luca contro Bindi, quando frenare la lingua è un dovere «Le parole sono pietre» scriveva più di 70 anni fa Carlo Levi, uno che sulle ragioni del male aveva meditato a lungo. Oggi forse dovrebbe correggere il titolo del suo libro. Nella dialettica politica nazionale, in bocca a certi energumeni del linguaggio, le parole sono ormai diventate molto più che sassi da scagliare. Pian piano, senza che ce ne rendessimo conto, si sono mutate in armi di annientamento, ordigni a frammentazione che seminano disprezzo, generano odio e partoriscono violenza. Nella foga della polemica, il momento della critica argomentata si trasforma ormai quasi automaticamente nella ricerca dell’invettiva demolitrice.
E in maniera speculare, quando si tratta di giustificarsi o difendersi da accuse ritenute infondate, si punta anzitutto a distruggere la fonte di provenienza, screditandola a priori a colpi di maglio verbale. Il caso De Luca-Bindi, esploso (anzi ri-esploso) ieri, è in questo senso pressoché da manuale. Proprio forse perché non voluto e non cercato dal principale responsabile. Il presidente della Regione Campania, ritenendo – secondo quanto ha precisato – di parlare «a telecamere spente» davanti all’inviato della trasmissione 'Matrix' su Canale 5, ha definito «infame» e «da uccidere» la presidente della Commissione Antimafia, riferendosi alla sua decisione di due anni fa di inserirlo nella lista dei «candidati impresentabili».
Solo in un secondo momento ha corretto il tiro, ma prendendosela subito dopo con il giornalista, che ha tacciato con appena minor virulenza di «delinquente» professionale. Avrebbe potuto definirlo 'scorretto' o 'sleale', ma ha scelto un altro termine, molto più pesante. Inavvertitamente? Magari sì, ma questo è il punto: ormai non si fa più nemmeno caso al valore semantico dei vocaboli. Non si soppesano i significati profondi né se ne calibra l’impatto. L’importante è colpire e fare il più male possibile. La casistica in materia è sterminata. Soprattutto dall’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, complici i salotti tv (ma sarebbe meglio chiamarli retrobotteghe), il confronto civile delle opinioni ha lasciato il posto alla sopraffazione acustica vicendevole, in cui è perfino difficile percepire la qualità degli insulti.
E non parliamo dei social media, dove l’istigazione al reato di sangue e agli eccidi di massa imperversa. Purtroppo i politici sono sempre più inclini ad adeguarsi, a seguire la corrente, dimenticando che la pubblica ribalta ha una sua dimensione di esemplarità che moltiplica alla base della società gli effetti negativi di quanto manifestano. «Poni, Signore, una guardia alla mia bocca», recita un bellissimo Salmo che tra l’altro invoca protezione dal nemico. Non si pretende certo di farne una regola dell’agone politico. Ma per favore qualcuno cominci almeno a frenare la lingua.