La Evangelii gaudium di papa Francesco è stata, ed è, un’esortazione apostolica di grande innovazione, che pone al centro l’evangelizzazione nel mondo attuale, rivolgendosi a tutto il popolo della Chiesa. L’invito a un annuncio fatto con gioia e con la dinamica dell’attrazione – ricordata e sottolineata in precedenza anche da papa Benedetto XVI –, la necessità di contaminarsi con la vita delle persone, anche le più lontane, prediligendo le 'periferie' esistenziali, sociali ed economiche, erano e restano i temi più forti di quel documento papale. Bellissimo l’invito a «ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta.
Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché 'nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore'» (Eg 5.I.3). Questa chiamata cattolica, nel senso di davvero universale, si è concretizzata esistenzialmente poche settimane fa con il documento Gaudete et exsultate : non solo perché torna fin dal titolo l’invito alla gioia, ma perché questa gioia annunciata è innanzitutto vissuta in un percorso interiore e comunitario di santità universale che si apre, anch’esso, a tutti. Vale la pena tornare su quest’ultima esortazione apostolica. Recentissima, ma che rischia di essere sentita da troppi come già vecchia e presto dimenticata. Lo faccio, di proposito, in questi giorni tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, in cui si sta celebrando in diverse città italiane anche la memoria di san Josemaría Escrivá (26 giugno), apostolo della santità ordinaria.
In Gaudete et exsultate , la dimensione pubblica dell’annuncio missionario si sposa con la dimensione intima della conformazione a Cristo e questo matrimonio entusiasma me, che sono dell’Opus Dei, perché vedo realizzati pienamente ed intrecciati due pilastri fondamentali del nostro carisma. La santità nella normalità della vita come espressione della consapevolezza della propria figliolanza divina. La consapevolezza dell’universale appartenenza del genere umano alla Paternità di Dio apre all’apostolato di amicizia che, alla luce dei nuovi documenti papali, ritrova tutta la sua forza di cambiamento del mondo se vissuto in pienezza, con spirito libero e autenticamente laico. Mi emozionano le risonanze e gli accordi che trovo negli scritti del Papa con parole di san Josemaría pronunciate negli anni 70 del secolo scorso. «Seminatori di pace e allegria: con le braccia aperte! E in questo abbraccio ci possono stare tutti: quelli di davanti, quelli di dietro, quelli di sinistra, quelli di destra. Tutti, tutti, tutti! Non possiamo chiudere le braccia a nessuno. Non possiamo essere persone di partito, non possiamo parlare di lotte: la lotta è anticristiana. Noi parliamo di intese, noi parliamo di scambiarci le nostre convinzioni per arrivare a un accordo».
L’accordo che un cristiano deve sforzarsi di costruire fuori di sé con realtà differenti e anche lontane, va di pari passo con l’unità interiore che trova la sua prima radice in Cristo. Quel che più mi emoziona è che questo profondo messaggio di santità nella normalità – che io ho conosciuto come il messaggio che mi ha coinvolto – grazie all’azione dello Spirito Santo nella Chiesa sta diventando, in maniera sempre più esplicita, definizione e Dna del cristiano. In fondo si tratta semplicemente di contemplare la vita di Maria che riceve l’annuncio e la gioia che condivide con la cugina Elisabetta. Quella gioia è la memoria di una lunga attesa che si è compiuta ed è la speranza di un mondo pieno di una Misericordia senza fine e senza alcuna esclusione.