martedì 23 febbraio 2021
Insieme alla trasformazione energetica e alla digitalizzazione, l’apparato produttivo deve sapersi convertire all’economia circolare per ridurre la quantità di rifiuti
La «transizione ecologica» non ignori nuovi stili di vita

Ansa

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L’istituzione di un Ministero per la Transizione ecologica è un’ottima notizia, prima ancora che sul piano operativo, su quello culturale. È la presa di coscienza che non va bene come abbiamo organizzato produzione e consumo fino ad oggi e che dobbiamo cambiare se vogliamo salvare il pianeta, ossia le nostre vite. L’11 febbraio “Avvenire”, con un editoriale di Leonardo Becchetti, invitava a «non sprecare l’occasione ». E l’occasione non sarà sprecata se il nuovo Ministero saprà tenere presente almeno due aspetti. Il primo è che la crisi ambientale non è solo una crisi climatica, ma una crisi molto più profonda che si manifesta sotto due forme: l’assottigliamento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti.

Per quanto riguarda le risorse, fino a ieri la preoccupazione principale era il petrolio, oggi si guarda soprattutto all’acqua, alla terra fertile, alla biodiversità, alle foreste, ma anche ai minerali, in particolare le così dette “terre rare” che stanno alla base delle nuove tecnologie dell’energia rinnovabile, della digitalizzazione, della robotizzazione. Per quanto riguarda i rifiuti sarebbe un grande autoinganno se pensassimo che il problema è limitato all’anidride carbonica. Da quando abbiamo scoperto che il clima ha già cominciato a cambiare e che le sue conseguenze possono essere catastrofiche per gli eventi estremi che possono condurre ad alluvioni e canicole, alla desertificazione, alla perdita di raccolti agricoli, a migrazioni di massa connesse all’innalzamento dei mari, anche i capi di Stato e di Governo hanno riconosciuto che bisogna cercare di ridurre le emissioni di gas serra.

Ma che dire della plastica che si sta accumulando ovunque e che ci torna indietro sotto forma di particelle dissolte nell’acqua che beviamo e nei pesci che mangiamo? E che dire dei veleni e delle sostanze chimiche che ogni anno buttiamo a migliaia di tonnellate sui suoli agricoli che oltre a provocare l’avvelenamento delle falde acquifere, ci fanno perdere tonnellate e tonnellate di suolo fertile? E che dire delle polveri sottili che contaminano l’aria delle città esponendo a rischio cancro non solo i nostri polmoni ma qualsiasi altro organo?

A partire da questa consapevolezza bisogna che il Ministero e l’intero Governo non concentrino l’attenzione so- lo sulla trasformazione energetica e sulla digitalizzazione, ma che si adoperino affinché l’intero apparato produttivo si converta all’«economia circolare» per ridurre la quantità di rifiuti da smaltire e la quantità di materie prime vergini da prelevare. Oggi l’obiettivo delle imprese è spendere meno soldi possibile. Domani dovranno chiedersi come fare per ottenere prodotti col minor impiego di risorse e la minor produzione di rifiuti possibile. I loro bilanci non dovranno essere solo economici, ma soprattutto idrici, energetici, ambientali. Più che di ragionieri dovranno dotarsi di esperti che sappiano calcolare i consumi di risorse, le emissioni di veleni, non solo durante la fase produttiva di loro diretta pertinenza, ma durante l’intero arco di vita del prodotto, da quando era ancora sotto forma di minerali nelle viscere della terra, fino a quando diventa rifiuto.

Life cycle assesment è il termine usato dagli inglesi per indicare lo studio di impatto ambientale dell’intero ciclo, dalla culla alla tomba, con l’obiettivo di individuare i punti di criticità e ricercare le alternative meno dispendiose e meno impattanti in termini di consumi energetici, di consumi di acqua, di produzione di anidride carbonica e di qualsiasi altro rifiuto emesso. Nella consapevolezza che la vera economia circolare è quella che si impegna a consentire il recupero e il riciclo anche dopo l’uscita dei prodotti dalle fabbriche quando ormai sono nelle mani dei consumatori. Per questo l’economia circolare comincia da una buona progettazione tecnica orientata a garantire lunga vita ai prodotti e a renderli riparabili, smontabili, riciclabili.

Ed è proprio il concetto di riparabilità che ci porta sull’altro aspetto che il neonato Ministero della Transizione ecologica deve tenere presente. Ossia che un’economia a vocazione ambientale non si ottiene intervenendo solo sul lato della produzione, ma anche quello del consumo, perché il cammino verso la sostenibilità viaggia necessariamente su due gambe: efficienza e riduzione. Se vogliamo ridurre il consumo di alberi dobbiamo produrre e consumare meno carta, se vogliamo ridurre il consumo di plastica dobbiamo produrre meno imballaggi che si ottiene con uno stile di vita complessivamente più sobrio, se vogliamo ridurre i veleni in agricoltura dobbiamo mangiare meno carne, se vogliamo ridurre il consumo di energia dobbiamo ridurre i nostri elettrodomestici e i nostri spostamenti. E se proprio vogliamo continuare a viaggiare, allora dobbiamo disporre di mezzi pubblici capillari, frequenti e all’avanguardia da un punto di vista energetico.

In altre parole la nostra marcia verso la sostenibilità passa necessariamente attraverso nuovi stili di vita a cui il nuovo Ministero dovrebbe dedicare una direzione generale. Con due impegni strategici: l’educazione a nuovi stili di vita e il potenziamento di tutte le forme di consumo ispirate alla condivisione. Oggi la nostra idea di consumo si fonda sull’acquisto, ma l’ossessione per il possesso comporta un grande accumulo di beni che finisce non solo per provocare spreco, ma anche per intralciare la nostra vita. Basti pensare alle automobili che gran parte del tempo se ne stanno ferme per strada intasando la circolazione e trasformando tutti gli spazi pubblici in un immenso parcheggio. Allo stesso modo, spazi preziosi delle nostre case sono occupati da lavatrici, aspirapolvere, tosaerba, strumenti che usiamo solo saltuariamente. Le nostre case potrebbero diventare più leggere se solo avessimo un atteggiamento più distaccato rispetto al possesso. Dobbiamo convincerci che il nostro interesse non è possedere le cose, ma soddisfare i nostri bisogni: di pulizia, di mobilità, di lettura.

Ecco l’importanza della condivisione, l’uso in comune dei beni rispetto al quale il soggetto pubblico deve giocare un ruolo centrale sia in termini di facilitazione di forme di possesso condiviso (non solo i mezzi di trasporto, ma anche attrezzi, lavatrici, spazi comuni), sia in termini di offerta di servizi collettivi (biblioteche, internet point, trasporti pubblici e molto altro). Sapendo che la condivisione è il solo modo per ridurre i consumi senza sacrificare la dignità di nessuno.

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