venerdì 27 luglio 2012
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Si può morire per salvare la propria dignità e quella delle istituzioni e degli ideali che si rappresentano e per i quali ci si è battuti. E si può morire di dignità offesa. In molti modi: chiudendosi in una sorta di lutto interiore o difendendo con accorata incredulità il proprio rigore e la propria onestà o, infine, semplicemente di crepacuore. Bisogna che la gente di questo nostro Paese, bisogna che tutti noi che a volte ci impanchiamo a frettolosi giudici, ce lo ricordiamo sempre. Ci sono persone profondamente per bene tra coloro che servono lo Stato. Persone come Loris D’Ambrosio, il magistrato e collaboratore del Quirinale improvvisamente e dolorosamente morto ieri. E ci sono politici così. Uomini di governo e delle istituzioni, ne cito due che ho conosciuto personalmente e seguito da cronista nei diversi giornali dove ho lavorato, come Giovanni Conso e Nicola Mancino. Non c’è dolore più grande e più mortale per una persona seria e giusta come D’Ambrosio, per chi svolge o ha svolto il proprio mestiere o il proprio incarico in scienza e coscienza, con senso del dovere e delle regole, che sentirsi in una morsa mediatico-giudiziaria, accusato di nefandezza e di oscura tresca; accusato di sporcare il ruolo che si è ricoperto e cercato di onorare. Tutto ciò provoca  un «rammarico atroce», ha detto ieri il presidente Giorgio Napolitano. Condividiamo questo sentimento. E speriamo che altri ne siano finalmente capaci.
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