La morte di una persona è uno strappo non solo per i familiari e gli amici, ma anche per l’intera società: ogni foglia caduta, o brutalmente strappata, è una foglia in meno sull’albero della vita. Sto avvertendo questa sensazione quando penso alla perdita per tutti noi di Fabo, e mi sento come se mi avessero strappato un pezzo d’anima. So che questo è ciò che lui desiderava, ma ogni volta che qualcuno prende la drastica decisione di togliersi la vita, perché ritiene che non valga più la pena viverla, lo strappo è ancora più doloroso. È evidente come la nostra società, malgrado i tanti progressi raggiunti in molti campi, non riesca ancora ad accettare i malati e frapponga barriere enormi, che nulla hanno a che fare con quelle architettoniche. Purtroppo la mentalità corrente che da anni si sta diffondendo, è quella che privilegia la forma esteriore della vita, non tenendo conto delle enormi potenzialità che ogni persona ha dentro di sé, indipendentemente dalla sua condizione fisica, qualunque sia. Provo dolore e amarezza nel caso di Fabo, perché penso che nonostante tutto egli avesse ancora le capacità e la forza per continuare a vivere, se solo avesse avuto qualche incoraggiamento a portarle alla luce.
Ogni talento non donato, ogni capacità con coltivata producono un grave danno all’intera umanità, intesa non come un’astrazione ideologica, ma come forma di vita complessa, composta da tutti noi. Per qualche ragione la società continua a ignorare noi disabili e malati portando così alla svalutazione del significato stesso di esistenza e al peggioramento della loro qualità di vita. È giunto il momento di cambiare questa mentalità, occorre un rinnovamento del pensiero collettivo, perché è l’ambiente in cui si vive che forma le menti di ciascuno e, insieme, le sue opinioni, pur nella libertà di scegliere. Mentre Epitteto diceva che l’uomo non è libero se non è padrone di sé, io affermo invece che l’uomo non è libero quando è padrone di sé, perché va sempre ricordato che la vita è un dono, e non solo un dovere o una responsabilità. E nel dono si inserisce l’uso della libertà da parte dell’uomo.
Come scriveva Karol Wojtyla nella sua opera teatrale “La bottega dell’orefice”, «in mezzo a tutto questo – la libertà, / una libertà, talvolta follia, / la follia di libertà che si impiglia nel groviglio. / E in mezzo a tutto questo – l’amore/che sgorga dalla libertà / come una sorgente dal suolo. / [...] Moltiplica tutto questo / (moltiplica la grandezza per la debolezza) / e avrai il risultato dell’umanità, / il risultato della vita umana». In mezzo a tutto questo l’uomo soffre anche la situazione della solitudine, uno dei peggiori mali del nostro tempo. E a volte è proprio la paura della solitudine che spinge a fare certe scelte, o la consapevolezza che un giorno, quando avremo esaurito le nostre risorse, saremo lasciati soli di fronte a una realtà troppo dura da affrontare da soli. Non possiamo permettere che questa nostra umanità lasci soli i suoi membri, inducendoli così a pensieri angosciosi e devastanti, tanto da desiderare la morte.
Spero che il caso di Fabo aiuti tante persone a riflettere sul fatto che non bisogna solo curare la malattia, ma avere cura di tutta la persona migliorando la qualità della vita e non permettendo che malattie o incidenti siano condizioni per le quali si decide che non vale più la pena vivere. In questo caso infatti si insinua nella mente il pensiero della morte per porre fine a una vita che si ritiene imperfetta, perciò non accettabile. E allora accade, come scriveva Ungaretti nei canti della “Morte meditata”, quando così narrava il suo rapporto con la morte: «O sorella dell’ombra, / notturna quanto più la luce ha forza, / M’insegui, morte». Io al contrario vorrei che tutti desiderassero la vita, sogno un mondo dove venga protetta. Dove anche ammalati e disabili possano dire grazie per tutti i loro domani.