Sociologi, demografi, economisti, giornalisti concordano: viviamo in un’epoca metropolitana, che nell’arco di pochi decenni (due, al massimo tre) vedrà il settanta per cento della popolazione mondiale vivere nei grandi centri urbani, i luoghi ideali di aggregazione di quella che il sociologo Richard Florida ha brillantemente definito la «classe creativa », quella che include le persone specializzate nella nuova economia digitale, appassionate di innovazione, ansiose di elaborare tecnologie sempre più avveniristiche e avanzate e sempre meno interessate alle forme tradizionali di aggregazione sociale (la famiglia e le parentele, le chiese, le scuole, i partiti).
La classe creativa non apprezza gli orizzonti ristretti, i tempi lenti, la vita, ben poco eccitante, delle piccole città. La classe creativa ama ciò che solo le metropoli possono offrire: l’attivazione di sempre nuove conoscenze, l’innovazione culturale, i contesti dello spettacolo e dell’alta ristorazione, l’offerta di servizi sempre più sofisticati, i viaggi in un mondo sempre più globalizzato e rassicurante, in quanto sempre meno diversificato (al di là dell’esotismo di maniera, offerto ogni anno dagli operatori turistici con sempre maggiore sfacciataggine).
Gli indicatori al riguardo non lasciano dubbi: il benessere economico si concentra irresistibilmente nelle grandi città, dove la vita è, sì, più intensa e stressante, ma è anche ritenuta, per chi vi abita, più gratificante. Già oggi negli Usa la metà del reddito nazionale è prodotto dalle venticinque aree metropolitane più ricche del Paese. Il reddito familiare medio di San Francisco supera di ben sei volte la media nazionale. Non c’è da meravigliarsi se le grandi metropoli continuano a ingigantirsi, ad attirare sempre più residenti, riuscendo oltre tutto, in più di un caso, ovviamente nel Nord del mondo, in forza della loro stessa prosperità a bonificare progressivamente ed efficacemente le periferie, fino a qualche decennio fa considerate luoghi di irrecuperabile degrado. Il futuro delle nostre città dunque appartiene alla 'classe creativa'? È troppo presto per dirlo.
Infatti, gli analisti più scrupolosi e attenti stanno registrando, da anni, un fenomeno che accomuna tutte, ma proprio tutte le grandi metropoli: il crollo del tasso di fertilità, a stento fronteggiato dalle dinamiche immigrative. Da New York a Parigi, da Londra a Barcellona, dalle capitali sudamericane a quelle asiatiche i dati sono convergenti: le grandi città attraggono i giovani impegnati e benestanti, ma, di fatto, sottraggono loro la voglia di far figli. Il discorso si applica perfettamente anche all’Italia: da Milano a Roma, da Genova a Torino il calo delle nascite è da anni costante e irrefrenabile. I tentativi di fronteggiare Il fenomeno (socialmente, politicamente e fiscalmente preoccupante) sono vari quanto timidi, e fino a oggi non stanno portando da nessuna parte, dato che nessuna iniziativa sociale di aiuto alle famiglie sembra funzionare.
Appare sempre più evidente che alla radice del problema per gli appartenenti alla classe creativa non ci sono questioni economiche né scarsità di risorse – si tratta di persone che vivono in un compatto benessere –, ma la progressiva perdita di una dimensione antropologica, quella del valore della familiarità generativa. In altre parole, vivere da single o attivare esperienze di coppia, avere figli o non averne, averne uno soltanto o più di uno, hanno acquistato nei grandi contesti metropolitani il rango di scelte radicalmente individuali, socialmente insindacabili e soprattutto prive di ogni rilevanza etica, sia pubblica sia privata. In un orizzonte secolarizzato, come quello oggi dominante, il quadro appena descritto non ha rilievo valoriale: rinunciare al matrimonio e ai figli non è ritenuto né un 'male' né un’anomalia.
Quale poi possa essere un futuro tutto incentrato sull’ambiente e sulla tutela della biodiversità e nel tempo stesso antropologicamente povero è questione che la classe creativa non vuole e, comunque, non sa porsi. A questo scenario si stanno opponendo alcuni movimenti sociali e soprattutto religiosi, il più delle volte di matrice cristiana. La loro incidenza nel sociale resta elevata quando assumono come punti di riferimento le questioni economiche, sociali, ambientali delle classi meno avvantaggiate e del Terzo mondo, è invece marginale sulle grandi questioni antropologiche. Ma l’avvento, che sembra ormai davvero imminente, di una società largamente 'post-familiare' sta creando problemi ineludibili: le città senza figli si disumanizzano e si trasformano in luoghi di compiuta e gelida funzionalità. Come ridare un minimo di calore a questo mondo postmoderno che abbiamo con tanta tenacia voluto e costruito è un impegno cui non ci possiamo sottrarre, anche se la sfida, oggi appare onestamente titanica.