Prima nascere. Decliniamo ogni giorno, su tutti i registri, il diritto alla vita, e giustamente. Ma perché la vita possa avere diritti, c’è bisogno che nasca. Un’ovvietà non scontata proprio in quel pezzo di mondo che ci riguarda – l’Europa, l’Italia –, che l’idea stessa della vita e dei suoi diritti ha generato, e che per i suoi tassi di natalità vede oggi a repentaglio il proprio futuro. Che è poi il futuro della 'civilizzazione' che a quei diritti ha dato storia e voce.
Il che vuol dire per l’Europa il dovere inderogabile di sostenere la tenuta demografica, almeno a livello di mero rimpiazzo, dei propri 'popoli', che detto in modo più articolato sono le società, anche con la loro fisiologia di meticciato etnico-culturale, che le sostanziano. Perché sarebbe singolare che una civilizzazione – quella europea – in cui è emersa l’idea stessa di diritto dei 'popoli', di tutti e degli altri, com’è giusto, non sostenga il diritto del 'proprio' popolo, della propria comunità 'organica'. Che oggi certo, nel mondo globalizzato, non è e non può essere solo – sia detto per evitare polemiche ideologiche a priori – l’organicità di uno ius sanguinis legato a un suolo, un’organicità etnico-biologica collocata in una sua geografia storica, ma non può non essere 'anche' questo; non può non essere cioè almeno uno 'stile di vita' che connota uno spazio geopolitico, e che se vuole rimanere aperto sulla scena geopolitica del mondo globale deve sapersi riprodurre; il che nient’altro significa che generare e assimilare, cioè 'ri-generarsi', sia sul piano etnico che culturale: fare figli e, proprio per questo, avere meno timore di accogliere i figli degli 'altri'. La vita, la propria vita come una comunità organica definita da uno stile di vita, un’identità 'nazionale', la si difende non sparando sui barconi della speranza degli altri, ma dondolando le culle, a cominciare dalle proprie. 'Stile di vita': al di là del politicamente corretto polemico, qualcosa che una delle deleghe previste per la sua Commissione dalla neo presidente Ursula von der Leyen voleva mettere al centro delle politiche di sviluppo e difesa dell’Europa.
L'utilizzo perverso, ideologico-politico contingente di questo problema (al centro del discorso di sovranismi e populismi nazionalistici) non ci può esimere dal vederlo e dall’affrontare il dato sostantivo, e non lessicale, che ci pone davanti. E gran parte di questa visione e di questa gestione passa per il sostegno alla natalità europea, e per quanto ci riguarda, italiana. Il che significa un sostegno alla famiglia generativa, riproduttiva, che 'fa figli', che garantisca all’uomo 'europeo' (e 'italiano') di evitare - o almeno limitare - la sua decrescita prevista dagli studi dal 10% della sua presenza sul pianeta oggi, al 7% di quella attesa a fine di questo secolo. Che in Italia significherà passare dagli attuali 61 milioni di individui a circa 39, a ordini di valori più o meno di un secolo fa. Questo è il punto attorno a cui ruota il senso stesso di lavorare e pensare a un futuro in Europa e in Italia.
Nelle società europee, e tanto più in quella italiana, che ha uno dei più bassi indici di natalità del continente, avanza sempre più il tipo sociale proprio alle società in recessione demografica del 'vivente terminale', di individui non più portatori di un progetto genitoriale. Individui biologicamente a scadenza in se stessi, senza 'discendenza'. Una figura sociale sempre più diffusa, che ha ragioni complesse in condizioni socio-economiche oggettive che impediscono o disincentivano la genitorialità, ma anche in preferenze e stili di vita soggettivi per lo più introiettati senza neppure la consapevolezza di non starsela scegliendo la propria vita, tutta volta a una autorealizzazione generativamente autoreferenziale, ma di starsela facendo prescrivere da una società, che nella generatività dei suoi membri – nell’impegno progettuale di una famiglia stabile che mette al mondo figli – vede una dis-economia produttiva. Una visione che condiziona la vita e che ha sua ideologia, anche questa prescrittagli, basata sull’autorealizzazione dell’esistenza come liberazione da ogni vincolo che ne tarpi le possibilità, che possa togliere qualcosa a quel che si può godere al 'presente'.
Abbiamo costruito le società del 'vivente terminale': sono un sistema di produzione e riproduzione sociale, che trova non solo funzionale ma più economico – anziché sostenere la propria dinamica demografica – 'approvvigionarsi' altrove di quelle che vengono definite 'riserve popolazionali' (di popolazione, cioè, di nuovi individui) necessarie al mantenimento dei propri standard produttivi (finché ovviamente questo approvvigionamento sarà possibile, e il modello dominante non sarà divenuto standard globale, a cominciare dalla sua acquisizione – tempo una o due generazioni – dai 'migrati' nelle società del 'vivente terminale'). Ma i membri di questi nostri consorzi umani che interesse potranno avere al loro futuro? Quale altro se non quello, angosciato, di invecchiare bene senza che al loro futuro, sempre più ristretto, 'rubino' risorse proprio le riserve di popolazione chiamate 'a servizio' per reggere e pagare fette crescenti di un welfare in cui 'vengono prima loro', i vecchi cittadini, anche se producono sempre meno? Può interessarsi davvero al futuro dei figli una società che non li genera? E come può essere accogliente una società che non accoglie neanche più se stessa?
Prima queste domande arriveranno, con soluzioni adeguate, nell’agenda politica europea, e dei suoi governi nazionali, e meglio sarà per tutti.
Filosofo, Università Federico II Napoli