La sobrietà è indubbiamente una virtù civile: nel linguaggio e nei comportamenti, così come nelle spese e negli stili di vita. Impossibile, perciò - soprattutto in un tempo prolungato di ristrettezze per la grande maggioranza dei cittadini - valutare negativamente qualsiasi tentativo di ridimensionare i costi della politica. Un buon esempio è stato dato negli ultimi 7-8 anni dal Quirinale, prima con il presidente Napolitano e, con incisività ancora maggiore, con l’attuale presidente Mattarella. Quest’ultimo ha realizzato finora circa 5 milioni di risparmi alle voci stipendi, autoparco e gestione del patrimonio immobiliare della Presidenza della Repubblica. Anche le due Camere hanno mandato segnali in questo senso dal 2013 a oggi, sforbiciando progressivamente (anche in percentuali a doppia cifra), le spese relative alla ristorazione, ai telefoni, alle retribuzioni del personale, alla locazione di immobili.
Dal prossimo anno, poi, grazie alla legge voluta nel 2013 dall’allora premier Enrico Letta, dovrebbe entrare in vigore lo stop definitivo al meccanismo dei rimborsi elettorali dei partiti.Per quanto riguarda il Parlamento, però, resta il fatto che il grosso dei costi è rappresentato dalle indennità di senatori e deputati e, soprattutto, dai vitalizi riconosciuti agli "ex". Da qui l’idea ricorrente di tagliare le indennità, riproposta in queste ore a Montecitorio dal Movimento 5 Stelle, che della lotta agli sprechi della politica ha fatto un cavallo di battaglia fin dalla sua fondazione. Ieri pomeriggio l’aula della Camera, su proposta della maggioranza, ha stabilito che il testo torni in commissione. «Il Pd ha votato per affossare la proposta di dimezzamento degli stipendi dei parlamentari», ha ovviamente subito potuto dichiarare il "padre" del M5S Beppe Grillo.Ma il tema è troppo serio per lasciarlo rinchiuso nei confini della polemica del momento.
Bisogna chiedersi, nel merito, se sia giusto tagliare linearmente l’indennità netta dei deputati (da circa 5mila a circa 2.500 euro mensili), lasciando tra l’altro pressoché intatte tutte le restanti entrate: diaria, trasporti, paghe dei collaboratori eccetera. Di solito con l’ascia si fa il lavoro grosso, poi è necessario lavorare di fino per non rovinare l’opera. L’indennità per i parlamentari nacque, infatti, per dare rappresentanza anche alle fasce sociali meno abbienti (e meno potenti) della popolazione: l’operaio o il contadino che lasciavano temporaneamente il lavoro per fare il parlamentare erano così garantiti economicamente, ma anche da eventuali ricatti e pressioni.
Oggi, è vero, la società è molto cambiata. Rimane tuttavia il pericolo insito nei "disboscamenti" indiscriminati, ovvero che la politica torni a essere solamente roba da ricchi, oppure diventi esclusivamente una "carriera" per sfaccendati senza arte né parte o, ancora, il pascolo di portatori di interessi di gruppi di potere legali, paralegali o criminali. Per tutti costoro, 2.500 o 5mila non fanno differenza, perché o sono soldi "in più" o sono sempre tanti rispetto allo stipendio che avrebbero guadagnato "fuori".Forse, allora, cogliendo l’occasione del ritorno del testo in commissione, si potrebbe riflettere sull’opportunità di rimodulare l’indennità sul reddito che il parlamentare aveva prima di essere eletto, naturalmente mantenendo un tetto massimo oltre il quale non si può andare. E anche sulla possibilità di limare i vari rimborsi e/o diarie, magari penalizzando chi è assente alle sedute e alle votazioni, in aula e in commissione.C’è una corda sottile tesa tra la garanzia e il privilegio. Se si decide di percorrerla serve il massimo equilibrio, altrimenti si rischia di precipitare addosso alla democrazia. E di farle male.