La predazione dell’Africa genera soltanto più instabilità
domenica 5 maggio 2019

L’Africa sta subendo profonde alterazioni nelle dinamiche interne agli Stati. Dalla fine della “Guerra fredda”, tra Usa e Urss, alla fine degli anni Ottanta, è avvenuta una progressiva parcellizzazione del continente a macchie di leopardo. Oltre alle ex potenze coloniali e agli Stati Uniti d’America, sono gradualmente scesi in campo Paesi come la Cina, l’India, la Russia, il Giappone, la Corea del Sud, la Malaysia, il Brasile, il Canada e tanti altri. Ciò ha determinato investimenti notevoli, ma ha acuito a dismisura lo sfruttamento invasivo dei territori, la corruzione delle leadership locali e generato situazioni di conflittualità.

L’acuirsi del land grabbing (accaparramento delle terre) da parte di società private, fondi di investimento ed altri Stati sta incrementando la svendita delle immense risorse naturali del continente, soprattutto dal punto di vista agricolo, minerario e del reperimento di fonti energetiche. Queste attività predatorie determinano un indebolimento della sicurezza “garantita' da parte dei governi centrali dei vari Paesi africani, mettendo a repentaglio la sovranità di non pochi di essi. Emblematico il caso della Repubblica Centrafricana dove, nonostante l’insediamento di un governo di unità nazionale, a seguito degli accordi di pace del febbraio scorso, il Paese continua a essere ostaggio di formazioni ribelli, molte delle quali di matrice islamista, che controllano zone ricche di minerali preziosi, fonti energetiche e legname. Dietro queste milizie si celano traffici illeciti che garantiscono l’approvvigionamento di armi e munizioni.

Uno scenario simile è riscontrabile nel settore orientale della Repubblica democratica del Congo, particolarmente nel Nord Kivu, ricco di minerali d’ogni genere, dove imperversano diverse formazioni armate che compiono costantemente atrocità e vessazioni nei confronti della stremata popolazione civile. Il dissolvimento della Libia, con la caduta di Gheddafi, ha di fatto sancito l’autonomia dei vari gruppi etnici, determinando un moltiplicarsi di milizie il cui orientamento politico nei confronti dei due principali contendenti – Haftar e al-Sarraj – è a dir poco volatile.

In Sud Sudan si riscontra la stessa fenomenologia per cui, sebbene il presidente Salva Kiir e il suo principale contendente Riek Machar si siano impegnati, lo scorso marzo, a collaborare di fronte a papa Francesco, il Paese è tuttora ostaggio di milizie, molte delle quali ree di crimini infamanti. Il Sudan, dopo la recente destituzione di Omar el-Bashir, patisce una frammentazione interna tra le varie formazioni politiche e variegate componenti della società civile.

In questo Paese rimangono peraltro irrisolte le crisi in atto da anni nel Darfur e sulle Montagne Nuba dove sono evidenti le spinte autonomiste. La Somalia continua ad essere altamente insicura, essendo infestata da milizie estremiste, sotto il giogo di potentati locali d’ogni genere legati ai clan familiari. Peraltro il governo di Mogadiscio, che controlla pochi scampoli di territorio, per la sua debolezza politica, non è più in grado di riaffermare la propria sovranità sul Somaliland che dichiarò l’indipendenza, non internazionalmente riconosciuta, a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. E la sistematica infiltrazione degli islamisti al-Shabaab verso il Kenya complica ulteriormente e, a tratti, drammaticamente la convivenza anche nel Paese vicino.

A ciò si aggiunga la crisi armata in atto nella Nigeria dove il movimento estremista islamico Boko Haram ha causato sofferenze indicibili alla popolazione civile, aspirando quantomeno alla secessione dei territori settentrionali. Se a ciò si aggiungono le infiltrazioni jihadiste che stanno contaminando la fascia saheliana, dal Mali al Burkina Faso, generando in quella regione instabilità politica e mobilità umana, è evidente che in Africa sta avvenendo l’esatto contrario di quanto avevano sognato Leopold Sedar Sénghor e Kwame N’Krumah, padri del Panafricanesimo negli anni 50 del Novecento, i quali credevano in una sorta di federalismo continentale. Di fronte a questo scenario, le cancellerie europee sono tuttora divise tra loro nel giudizio, a volte contrapposte da miopi calcoli e inermi nell’azione diplomatica.

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