La riforma del Reddito di cittadinanza, annunciata dal nuovo governo, si potrà giudicare compiutamente solo quando ne verranno esplicitati i contenuti tecnici. Modifiche significative, d’altrocanto, sono state sollecitate da tempo, anzitutto da chi difende questo strumento di contrasto alla povertà.
Tuttavia, ciò che già oggi vale la pena di cominciare ad analizzare è la filosofia sottesa all’intervento, per come la nuova maggioranza sembra delinearla. A cominciare dal passaggio da un welfare universalistico con accesso condizionato da criteri oggettivi (ad esempio i limiti di reddito e di patrimonio) ad uno più selettivo sulla base di condizioni qualitative, come la potenziale abilità al lavoro.
La presidente del Consiglio, nel suo discorso di martedì alla Camera, infatti, ha tratteggiato le direttrici sulle quali intende muoversi prospettando due binari ben distinti: su una traiettoria i sussidi, sull’altra i servizi. Da una parte i pensionati, gli invalidi, i minori a carico, che avrebbero diritto al beneficio, «se possibile» anche aumentato rispetto ai livelli attuali. Sull’altro binario, invece, «chi è in grado di lavorare», per cui «la soluzione non può essere il Reddito di cittadinanza, ma il lavoro, la formazione e l’accompagnamento al lavoro, anche sfruttando appieno le risorse e le possibilità messe a disposizione dal Fondo sociale europeo», ha esemplificato Giorgia Meloni. Una divisione assai netta, che potrà essere applicata in due modi. Il primo ricalcherebbe l’attuale selezione dei beneficiari tenuti a sottoscrivere il “patto per il lavoro”: oggi 660mila su 3,6 milioni di beneficiari totali del Rdc, a cui vanno aggiunte 170mila persone che hanno un’occupazione ma guadagnano talmente poco da restare sotto la soglia di povertà assoluta. Il secondo, invece, si baserebbe su due semplici criteri: l’età e l’abilità fisica al lavoro. Così solo i minori, gli anziani over-65 e gli invalidi (con quale percentuale minima?) sarebbero meritevoli di ricevere un sussidio. Sostanzialmente perché privi di mezzi e alternative, non possono uscire dalla povertà con le loro forze. Per tutti gli altri, invece, non sarebbe previsto alcun sostegno monetario ma solo servizi di formazione e avviamento al lavoro che si spera di poter attivare grazie al Fondo sociale europeo. Si tratta di quelle famose “politiche attive del lavoro” che tutte le forze politiche invocano a gran voce ma che ben poco sono state sviluppate nel concreto in Italia. Politiche che, tra l’altro, necessitano di investimenti nei servizi pubblici e privati del lavoro e che comunque dispiegano i loro effetti in tempi medi. Periodo di tempo durante il quale le persone inoccupate e in povertà assoluta dovrebbero comunque sostenersi in qualche modo. Ma che verrebbero considerati immeritevoli di ricevere provvidenze pubbliche perché “potenzialmente” potrebbero lavorare e non lavorano.
Schematismo che tradisce una concezione della disoccupazione e della povertà come una sorta di colpa. Ora, non c’è dubbio che sia il lavoro – la dignità che esso conferisce e l’autonomia che può garantire – il mezzo principale e preferibile per far uscire le persone dalla povertà. Sappiamo, però, con altrettanta certezza che molte delle persone in povertà non sono in grado di lavorare per ragioni di ordine sanitario e sociale, un’altra parte non è immediatamente “impiegabile” ma necessita di una presa in carico complessa e un’ulteriore porzione di cittadini poveri vive in contesti territoriali in cui, al di là della propria volontà e disponibilità, è molto difficile trovare un’occupazione regolarmente retri-buita. Parafrasando Tolstoj, si potrebbe dire che ogni famiglia povera è povera a modo suo. Perciò occorre evitare di cadere in un manicheismo che divida troppo semplicemente i poveri in “meritevoli” e “immeritevoli” di sostegno. Per un motivo pratico, perché è difficile distinguere le situazioni.
Ma soprattutto per giustizia, perché la povertà non può essere considerata una colpa (anche quando è frutto di errori piccoli e grandi) e la disoccupazione semplicemente un demerito. E questo in particolare quando, nel contempo, si esalta a prescindere il «fare» imprenditoriale, da « non disturbare » con troppe regole e vincoli, magari anche in materia di contratti di lavoro; quando si difen-dono alcune condizioni in cui si mescolano rendite di posizione e lavoro, ad esempio quelle dei concessionari di stabilimenti balneari; quando si prepara un ennesimo condono per la modesta evasione fiscale; quando si prospetta una tassa piatta che innegabilmente favorisce i redditi più alti; quando si innalza il limite all’uso dei contanti, addirittura giustificandolo come un’agevolazione ai poveri, che chissà come potranno mai comprare beni da 10mila euro in contanti. La riforma del Rdc è – potenzialmente – salutare. A patto che non si lanci il messaggio che per alcune categorie di persone, considerate meritevoli, le regole possono essere flessibili, mentre per i poveri, immeritevoli, si irrigidiscono o si fanno sparire tutele e provvidenze che sono puri e semplici presìdi di civiltà.