Le tre del pomeriggio di Venerdì Santo. Rintoccano le campane del Rito ambrosiano, lente. Il suono percorre le strade attorno, a quest’ora quasi silenziose. Ma è una nota bassa, che si avverte solo se si tende l’orecchio, solo se si sta attenti. In quante case, quest’anno, qui a Milano e in tutta Italia, è passata la morte. Una morte che a volte è parsa una rapina. Vecchi genitori o compagni di tutta la vita, in un’ora portati via in ambulanza, soli; e mai più rivisti. Non si usava morire così, da noi, dai tempi forse della peste. Lo straniamento dei lettighieri con la tuta e il casco, robotici, che portano via, senza nemmeno toccarlo con le mani, chi ti è caro. E non lo vedrai più. Assurdo, lunare. Tutto ciò che è stato, tutto ciò che si è vissuto, tranciato da un colpo di cesoia. È un’altra morte, straniante, quella che è passata nelle nostre case. Adesso le ore tre del Venerdì Santo affondano nell’anima di chi è stato abbandonato così. (Anche Cristo è stato abbandonato, prima della Croce; e viene da chiedersi se peggio sia stato il martirio fisico o non invece quel ritrovarsi lasciato infine solo come uno straniero, o un figlio di nessuno).
Anche chi se ne è andato su quelle ambulanze con la sirena accesa – e quante, erano – si è ritrovato solo. Forse con medici e infermieri umani, e con un prete, nell’ultima ora. Ma quanto lacerante doveva essere giacere in un letto, senza un volto caro accanto: la vita e gli affetti sequestrati, e il respiro che manca. Mendicare l’aiuto di qualcuno che ricarichi il cellulare, che chiami casa per te, giacché la mano ti trema. Scendere, di ora in ora, in una morte che ti spoglia, come un brigante, di tutto.
E oggi, per chi è rimasto è Pasqua, una volta ancora. Anche chi ha fede, dopo simili prove, può faticare a convincersi della verità di questo giorno. Il rischio è che le parole e i riti ti scivolino addosso, senza significare più niente. Peggio: che li si osservi per abitudine, ma col nulla, dentro. Maschere che mettono in scena una memoria vuota. La morte di Cristo, il Sepolcro, l’abbandono, tutto questo in molti, nell’anno che è passato, lo hanno percorso con i loro occhi, con i loro passi, mai come prima. Proprio per loro è più che mai bruciante l’urgenza della Pasqua. La Pasqua, ora, o è la Resurrezione, carnale, inaudita, di quell’uomo duemila anni fa, o è un niente. Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede, scrive Paolo ai Corinzi, e «siamo da commiserare più di tutti gli uomini». Ma spesso noi dimentichiamo questo aut aut, questa sfida radicale. La pietra rotolata, il Sepolcro vuoto, le parole a Maria di Magdala, il dito di Tommaso nello sterno: è vero, o è leggenda? È – sfacciatamente smentendo quell’uomo le leggi della vita umana, e della storia – vero, o no?
Più aspra è la domanda agli spogliati, agli orfani senza il tempo di un abbraccio, di un perdono, del 2020: e la risposta, ora, è questione di vita. Come imbattersi bruscamente in qualcuno che ti affronta, perentorio, e non ti lascia passare, finché non rispondi: ci credi, tu? Possa questa Pasqua, nelle città silenziose e ferme, allargarsi in una misericordia che sappia e abbracci ogni solitudine e disperazione. Quei volti amati che sembrano perduti non lo sono, è la promessa che tiene in vita chi ha perso un figlio, chi ha perso un amore. Ma, tutto sta, tutto accade in quest’alba di Pasqua. Tutto è vero, solo se Cristo è risorto – se è risorto, davvero.