«Sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente “musicali”. Una tale inclinazione per la musica – questa “musicofilia” – traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie». Deve essere stata una gradevole sorpresa per i ragazzi ieri mattina trovare tra le tracce della maturità questo testo di Oliver Sacks, neurologo e scrittore, celebre per L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello o Risvegli. Un testo stimolante, con l’invito a ragionare su come la musica «può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita». Ma che avrebbe dovuto far tremare un poco i candidati. Su quali basi scrivere, al di fuori della propria esperienza personale?
La musica, al centro finalmente dell’Esame di Stato, è la grande assente della scuola italiana. Nessun indirizzo di scuola secondaria di secondo grado, al di fuori ovviamente del Liceo musicale-coreutico, la contempla nei propri piani di studio. E questo da sempre. Solo il vecchio Istituto magistrale prevedeva l’insegnamento di “Musica e canto corale”, ma è stato cancellato dai programmi del suo erede, il Liceo sociopsicopedagogico.
Certo, la troviamo nella scuola secondaria di primo grado (dove per fortuna sono sempre di più gli insegnanti che hanno seguito un corso di didattica musicale in conservatorio) e alcuni istituti hanno attivato l’indirizzo musicale, che prevede l’insegnamento curriculare di uno strumento, spesso però solo su singole sezioni. Se passiamo alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria troveremo previsto l’insegnamento, ma è affidato a insegnanti spesso privi di una conoscenza approfondita delle risorse della didattica musicale. Meglio poi non tentare un confronto, restando in Europa, con Paesi come Regno Unito e Germania, dove è del tutto normale saper leggere il pentagramma.
Va detto a onor del vero che negli ultimi anni si è registrato un nuovo interesse nei confronti della relazione tra scuola e musica. Sono notevolmente cresciuti in un decennio i cori scolastici (in ogni ordine e grado), anche con il sostegno economico da parte del Miur. La diffusione dei concorsi musicali per scuole (assistervi è un’esperienza bellissima) è il sintomo dell’estendersi di una pratica. Nelle scuole secondarie possiamo trovare laboratori opzionali, in cui si fa musica di ogni genere, attivati solo però in presenza di docenti su posto di potenziamento. Progetti come Opera Education di Aslico, che fanno letteralmente cantare i ragazzi nel grande repertorio, hanno seminato e raccolto moltissimo. Belle realtà, talvolta straordinarie, ma pur sempre un extra. E che in un certo modo discriminano tra scuola e scuola. Che la musica sia assente (ex lege o di fatto) dai percorsi educativi è un vulnus, tanto più grave in una cultura come quella italiana che a ogni piè sospinto ama rimarcare la propria “musicalità”. Un orgoglio nazionale che si convince di vedere splendente un abito logoro. È inutile celebrare l’opera come una “eccellenza” italiana se poi la maggior parte delle persone non ha gli strumenti per avvicinarla. Forse si è dato molto per scontato, confidando su un presunto innatismo della cultura musicale nel nostro Paese. L’insegnamento pubblico della musica è stato riservato alla dimensione professionalizzante (i Conservatori), dimenticandosi che senza un pubblico culturalmente preparato, anche senza sapere necessariamente suonare uno strumento, quei professionisti non avrebbero avuto una platea.
Ma non è solo una questione di cultura generale. Il testo di Oliver Sacks sottolinea una cosa: la centralità della musica nell’esperienza umana. Non è solo una costante antropologica ma una vera e propria una dimensione fondativa, originaria. Le ricerche sono concordi nel riconoscere alla musica (senza classificazione di genere o valore) benefici rispetto allo sviluppo psicomotorio, alle abilità cognitive di base, al controllo degli stati emotivi e persino, grazie alla spontanea inclusività della pratica di gruppo, alle competenze in materia di cittadinanza. Insomma, un toccasana. Uno slancio normativo ci sarebbe: uno dei decreti attuativi (del 2017) della legge “Buona Scuola” promuove la “diffusione della cultura umanistica”, e quindi anche musicale. Chissà che questa traccia non faccia maturare finalmente la decisione per un ingresso strutturale della musica nella scuola italiana.