mercoledì 1 luglio 2015
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Caro direttore, la decisione dell’Europa di strangolare la Grecia e i 39 turisti barbaramente uccisi sulla spiaggia di Sousse sembrano fatti così lontani fra loro, eppure un saldo filo li tiene uniti: si chiama cecità. Già molto si è scritto sulla storia del debito pubblico greco, sul ruolo della corruzione e dei prezzi gonfiati che ha visto il coinvolgimento massiccio anche delle imprese di armi tedesche, sul ruolo dell’alleggerimento fiscale per le classi più agiate, sul ruolo degli interessi, sul ruolo dei prestiti forniti per mettere al sicuro le banche creditrici ed evitare il fallimento alle banche private greche, in una parola su un debito pubblico costruito con la complicità di tutti per arricchire i già ricchi alle spalle del popolo greco e dei contribuenti europei. Come in romanzo drammatico, l’unico capitolo che manca è quello finale, relativo alla condanna a morte del protagonista. Ma ridiciamocelo: il debito greco non è una questione finanziaria. Sul Pil europeo vale poco più del 2%, mentre sul debito pubblico di tutti i paesi Ue vale poco più del 3%. La Ue avrebbe strumenti per risolvere il problema del debito greco, senza contraccolpi per nessuno. Non lo vuole fare perché il debito greco è una questione politica. I capi di governo europei, alcuni di loro di sinistra e di centro sinistra, hanno rifiutato le richieste greche per ricordare al mondo che l’ordine economico e sociale che intendono far trionfare e comunque preservare è quello mercantile del grande capitale. Costi quel che costi sul piano umano, sociale, ambientale. Cosa potrà succedere quando la Grecia sarà sola con tutte le sue difficoltà, nessuno può saperlo. Ma se cercherà soluzioni presso i russi o i cinesi, diventando un corpo estraneo, addirittura una spina nel fianco dell’Europa e più in generale del vecchio ordine occidentale, allora si griderà al nemico fanatico aprendo nuovi fronti di ostilità. Uno scenario che ci porta sull’altro versante, quello arabo-islamico. L’Europa si sta ponendo di fronte al terrorismo come se fosse una vittima innocente, al pari di un tranquillo viandante preso d’assalto dalla furia omicida di un folle. Alibi perfetto per non parlare mai di sé, delle proprie responsabilità e poter rivendicare il diritto a porsi come unico obiettivo quello di annientare il folle. Quando si vuole evitare di analizzare i fenomeni, e soprattutto le responsabilità, la si butta sempre sul conflitto religioso o etnico. Io non nego che nelle file islamiche possano esserci assetati di potere che usano il Corano per portare avanti loro progetti di potere personale. Ma come mai fanno così tanti proseliti? Chi sono coloro che rispondono all’appello dei califfi di turno, che accettano di uccidere o di trasformarsi in bombe umane? Solo dei fanatici religiosi? Anche, ma io ci vedo tanto risentimento e tanto rancore da parte di persone che si sentono umiliate e represse per non avere trovato in Europa quell’uguaglianza a cui aspiravano, come nel caso dei tanti maghrebini confinati nei bassifondi delle grandi città; per essersi sentiti vittime di un’aggressione straniera come nel caso dell’Iraq; per essere stati violentati nella democrazia come nel caso dell’Egitto; per essere stati spodestati a casa propria come nel caso della Palestina. Non possiamo continuare a pensare di risolvere i problemi sul piano muscolare. Violenza richiama violenza, se noi che abbiamo gli eserciti butteremo le bombe, quelli che esercito non hanno ricorreranno al terrorismo. La violenza si combatte eliminando le cause della violenza. E serve un cambio di strategia. Non più l’uso di forza e arroganza, ma di coscienza e ascolto. Solo popoli che sanno riconoscere i propri errori e che sanno ascoltare le ragioni degli altri possono costruire rapporti pacifici. Se siamo troppo orgogliosi per farlo per noi, facciamolo almeno per i nostri figli.Francesco GesualdiIl direttore Marco Tarquinio risponde:Cecità, dice Francesco Gesualdi. Ed è difficile, quasi impossibile, negare che sia questo il «saldo filo» che lega la crisi che ha il suo epicentro in Grecia e quella che scuote il mondo arabo e islamico. Sono questi i due conflitti più clamorosamente e dolorosamente aperti e che più fanno risaltare l’«insufficienza» di quel gigante economico e nano politico che è oggi l’Unione Europea. È vero. Anche se altrettanto scandalosamente aperte e sanguinanti sono le ferite che segnano – in Ucraina e nell’area africana che ha nella Nigeria il suo cuore dolente – la terza e la quarta faccia della «guerra a pezzi» che in diversi e anche contemporanei modi (militari, terroristici, commerciali, finanziari, culturali e mediatici...) stiamo sperimentando e in molte più maniere tendiamo a dimenticare, nonostante la preghiera incessante e la parola forte del Papa. Si possono fare, e infatti le stiamo sviluppando e continueremo a farlo, analisi specifiche e mirate su tutto questo. Ma forse l’unico modo per vedere, per capire e per cominciare a tracciare la via d’uscita dal “recinto bellico” nel quale tendiamo a richiuderci è proprio renderci conto della cecità di cui siamo vittime, e di cui sono soprattutto vittime i più “grandi” tra noi, coloro che consideriamo (ed effettivamente sono) i potenti della terra e soprattutto quelli della nostra parte di mondo, questa Europa che pure sta sperimentando da decenni la forza costruttiva e pacificatrice della collaborazione tra i popoli e la fatica buona dell’integrazione tra gli Stati. Una cecità che porta a non riconoscere che l’unico motivo serio per credere, per volere una patria, per costruire una casa (e una moneta) comune, per avviare qualsiasi impresa è rendere migliore, più giusta, più felice e – sì – più piena e santa la vita di esseri umani in carne ossa. Dicono che sia un sogno. Ma a chi piace continuare ad alimentare e vivere questi altri incubi? Gesualdi, che la lezione di don Lorenzo Milani ha appreso bene, ha proprio ragione. Ci sono sogni che non si possono non fare, e il tempo è questo.
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