Nell’epoca dell’ordine neoliberale globale – che ha dominato la teoria delle relazioni internazionali dopo la caduta del Muro di Berlino – la crescita economica, col benessere riversato sulla vita delle persone, è stata pensata come forza sufficiente per disinnescare ogni potenziale di discordia e controversia nella vita sociale. A livello nazionale e internazionale. Dentro questa cornice di pensiero, per anni si è affermato che dove si muovono le merci non circolano le armi; e che la concorrenza regolata del mercato costituisce un potente fattore di civilizzazione, capace di trasformare la rivalità latente (tendenzialmente violenta) in una pacifica competizione tra interessi diversi. È sicuramente vero, almeno in parte, che la possibilità di garantire migliori condizioni di vita per intere popolazioni e l’esistenza di istituzioni economiche sufficientemente solide siano dei fattori importanti per sminare la violenza latente di ogni gruppo sociale.
I segnali dell’inadeguatezza di questa convinzione però ci sono sempre stati, e sono cresciuti nel corso degli anni. Basti pensare alla reazione violenta che l’ordine neoliberale ha prodotto all’interno di una parte del mondo islamico. Con la scia del terrorismo che siamo ancora ben lontani dall’aver debellato. Ma adesso, con la guerra d’Ucraina e le tensioni che si aggravano nei rapporti tra Stati Uniti e Cina, e più in generale tra mondo democratico e autocratico, la crisi è conclamata. Oggi paghiamo le conseguenze di questo miope riduzionismo. Il che non vuole dire giustificare la tirannia e l’aggressione, inaccettabili. Piuttosto, si tratta di prendere atto dei limiti del pensiero di ieri e di quello di oggi. Perché il pericolo è quello di passare da un riduzionismo a un altro: immaginare che la guerra possa essere la risposta alle tensioni che si vanno manifestando. Affermate le buone ragioni che il mondo occidentale sostiene nel condannare l’aggressione e le atrocità che la Russia di Putin sta compiendo in Ucraina, un’analisi realista sollecita la ricerca di soluzioni diverse.
Aver coltivato per decenni l’idea che il conflitto potesse essere evitato solo attraverso la crescita ci ha disabituato a gestire le tensioni e a coltivare l’arte della diplomazia. Tanto a livello internazionale quanto dentro ogni singolo Paese diventa sempre più difficile intendersi. Le posizioni si radicalizzano; i toni si fanno sempre più aspri; l’odio diventa una pratica sociale che inghiotte interi gruppi sociali se non addirittura interi Stati; la violenza e lo spirito di sopraffazione trovano nuovi seguaci; istituzioni nazionali e internazionali stentano a reggere l’urto di un mondo che, per usare l’espressione di Shakespeare, è out of joint, storto e fuori squadra. Il mondo sembra preda della sindrome della Torre di Babele: il crollo del sogno di una globalizzazione pensata come crescite infinita fa riemergere in tutta la sua virulenza la parte oscura dell’animo umano.
Come ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, si sta scivolando verso il baratro. Eppure, sembriamo incapaci di fermare la pulsione di morte che pare pervadere l’intero pianeta. Non a caso sono troppe le voci di chi afferma l’antica e terribile idea che la guerra sia il grande lavacro per rigenerare la coscienza dei popoli. E con essa il sistema degli interessi economici e politici. S’è detto e ridetto che il sostegno all’Ucraina è sacrosanto. Che in un mondo esposto alla violenza e alla sopraffazione è necessario dare il segnale che non tutto è lecito. Ma dire questo non porta alla conclusione che l’unica via da perseguire sia la radicalizzazione del conflitto. Forse cerchiamo la soluzione nel posto sbagliato. Di fronte a quello che sta accadendo, “spirito” sembra una parola vuota.
Ma in realtà, la soluzione, più che militare, è spirituale. È solo sul piano spirituale, tanto a livello di leader politici che di opinione pubblica, che si può cercare una via d’uscita dalla spirale bellica in cui siamo imprigionati. Solo lo spirito, nella sua libertà e intelligenza, è infatti in grado di pensare – e realizzare – quei passaggi inattesi, quelle sintesi innovative, quelle ricombinazioni improbabili di cui oggi abbiamo disperatamente bisogno. Solo lo spirito può aiutare l’Occidente ad avere il coraggio di disegnare un nuovo ordine globale postliberale che eviti la mera contrapposizione tra democrazie e autocrazie, per delineare le nuove condizioni che possono rendere possibile la convivenza tra diversi. Che significa – molto concretamente – lavorare per delineare le istituzioni i e i princìpi di una nuova legalità internazionale, allo scopo di regolare le modalità di risoluzione delle controversie tra gli Stati, i termini minimi del riconoscimento della dignità umana al di là delle profonde differenze culturali, gli impegni comuni rispetto ai problemi planetari.
Ma chi, e dove ci sta lavorando? Possibile che sia quasi solo papa Francesco a tenere in primissimo piano il dossier, aperto al cospetto del mondo con la Dichiarazione di Abu Dhabi, firmata assieme al grande imam di al-Azhar Ahmed al-Tayyeb, e con l’enciclica “Fratelli tutti”? La scelta che abbiamo di fronte è tra il cedere alla meccanica cieca dei fatti, trascinati dalla catena inarrestabile delle azioni e delle reazioni, e la capacità di modificare il corso degli eventi, aprendo una via inattesa verso la salvezza.