Le tre bandiere più colorate, oggi alla cerimonia di inaugurazione dei XXIII Giochi olimpici invernali, saranno le tre bandiere che non sventoleranno. Nel bene e nel male. Nel bene, i vessilli delle due Coree: assenti perché sostituiti da quello unitario – la sagoma della penisola in azzurro su campo bianco – che rappresenta la speranza della riunificazione.
Nel male, quello della Russia, il cui Comitato olimpico è stato scacciato con ignominia a causa del doping di Stato praticato alle scorse Olimpiadi giocate in casa: al suo posto gli “Atleti olimpici della Russia” – quelli invitati dal Cio perché ritenuti “puliti” – sfileranno dietro alla bandiera a cinque cerchi. Colorati, naturalmente, perché il caleidoscopio dei colori, l’unità nelle diversità, è fin dai tempi di De Coubertin il tratto distintivo dello spirito olimpico, anche a dispetto delle magagne dello stesso Comitato olimpico internazionale.
Che di magagne ne ha parecchie: dai problemi di corruzione interna, che più volte hanno dato luogo a gravi scandali, a quello, in parte conseguente, della difficoltà sia a gestire i problemi di doping su vasta scala (come quello russo, appunto), sia a valutare al di là dei soldi messi sul piatto le credenziali dei Paesi candidati a ospitare le Olimpiadi (vedi la sconcertante assegnazione dei Giochi invernali del 2022 nuovamente a Pechino, facendo così della capitale che perseguita Nobel per la Pace come il Dalai Lama o Liu Xiaobo la prima città al mondo a ospitare sia i Giochi estivi sia quelli invernali). Ma tutto questo ogni due anni, per tre settimane, scompare; ogni due anni, per tre settimane, lo sport rimane solo quello bello, bellissimo degli atleti, della competizione, del confronto onesto (quasi sempre, o comunque lo si spera) per essere citius, altius, fortius.
Alle Olimpiadi invernali questo emerge ancor più che a quelle estive perché, se è vero che il bacino di attenzione globale è per forza di cose più limitato, è anche vero che qui le Olimpiadi rappresentano realmente per tutti il vertice assoluto delle rispettive discipline. Ai Giochi estivi esistono remore, dubbi e perfino disinteresse da parte di diversi sport (dal calcio al tennis, dal rugby al golf) per i quali le Olimpiadi non sono la competizione più ambita, e anzi spesso sono viste come un una fastidiosa incombenza, magari da delegare a squadre giovanili o ad atleti di seconda fascia.
Negli sport invernali invece nulla di tutto questo, e poco importa se le piste di gara olimpiche spesso non sono né le più impegnative né le migliori; non importa se otto anni fa Giuliano Razzoli ha vinto la sua medaglia d’oro (l’ultima portata a casa da un azzurro) sopra una neve molliccia e acquosa, lungo un pendio appena accennato... il titolo olimpionico resta quello che da solo basta a fare una carriera.
Così è per tutti gli sportivi invernali, così è per tutte queste discipline in cui il divismo, la ricchezza degli sponsor, la sovraesposizione personale restano, perfino in questi anni di ipersocializzazione virtuale, distanti anni luce dalle derive idolatriche degli sport che vanno per la maggiore. E allora finalmente, per tre settimane, è possibile lasciar da parte tifoserie e triti rituali e resta spazio soltanto per un agonismo sano e rispettoso; resta spazio per i colori di un’Olimpiade, che brillano di più proprio perché accesi dal luccichio di un sottile velo di neve e di ghiaccio.