«Dobbiamo sapere quante tasse pagano le aziende», ha detto a un certo punto Paolo Gentiloni mentre presentava la proposta della Commissione europea per armonizzare le regole sulle imposte alle imprese. È una frase incredibile, o meglio, è incredibile la realtà che descrive (e solo perché siamo assuefatti dalla velocità e dalla quantità delle informazioni che ci arrivano rischiamo di non accorgercene).
Il commissario agli Affari economici, cioè la massima autorità europea sul fisco, non è in grado di dire quante tasse pagano, e dove, le aziende multinazionali che lavorano e fanno affari nei ventisette Paesi dell’Unione Europea. Ovviamente non è colpa di Gentiloni: nessuno dei governi europei può dire di sapere con un accettabile grado di precisione quale sia la percentuale di imposte che le multinazionali pagano sui profitti generati in Europa. Nei decenni i migliori tributaristi e commercialisti internazionali sono stati arruolati dalle aziende con la missione precisa di trovare corridoi, pertugi e scappatoie così da ridurre al minimo le imposte da pagare sul reddito d’impresa. Questi professionisti sono stati abili. Hanno creato piccoli 'capolavori fiscali' come il famigerato 'doppio sandwich irlandese-olandese' che fino a qualche anno fa ha permesso a un gigante del calibro di Google e a molte altre multinazionali di spostare i soldi tra Dublino e Amsterdam per poi spedire il tutto, praticamente senza tasse, nel paradiso fiscale delle
Bermuda. «Il mondo cambia, anche le tasse dovrebbero farlo», è lo slogan con cui l’Europa promuove la sua nuova agenda fiscale. È vero: le nazioni dell’Ue hanno creato un mercato unico, diciannove di loro oggi condividono anche la moneta, ma dal punto di vista del fisco ognuno ha mantenuto le proprie regole. Norme che, come impostazione di base, per molti risalgono quasi a un secolo fa. Il trattamento favorevole delle royalty che fa dei Paesi Bassi un paradiso fiscale all’interno dell’Ue è diretta eredità del passato coloniale mercantilista dell’Olanda… Molti Stati in questi anni hanno approfittato con slealtà dell’assenza di regole comuni. L’Olanda, appunto, ma anche il Lussemburgo, l’Irlanda e altre nazioni 'furbe' hanno aiutato le aziende a incamerare decine di miliardi di euro di tasse evitate a danno degli altri Stati europei. Hanno mascherato per competizione fiscale quello che in realtà era un abuso della debolezza di Bruxelles. Ci voleva la pandemia per svegliare l’Europa.
Chiamata a finanziare con la spesa pubblica il rilancio dell’economia dopo la crisi peggiore di sempre, la Ue adesso sembra determinata a evitare di farsi ancora soffiare i soldi da sotto il naso.
L’obiettivo è arrivare a nuove regole per il 2023.
Sarà un percorso complicato, perché ci sono Stati che ci guadagneranno e altri che ci perderanno (l’Italia sta nel primo gruppo). Trovare il consenso politico sarà difficile anche per la capacità di pressione delle grandi multinazionali. Riuscire a chiudere le vie di fuga del denaro dalla Ue verso paradisi fiscali offshore come le Cayman, Bermuda o le Isole Vergini sarebbe fondamentale, per quanto la proposta presentata ieri non ne parli esplicitamente. Avviare il percorso verso un’Unione fiscale che oggi appare lontanissima sarebbe un passo avanti straordinario. Non sono missioni impossibili. Pochi avrebbero creduto che la Svizzera potesse abbandonare la sua tradizione secolare sul segreto bancario, eppure nel 2014 la Confederazione ha accettato lo scambio di informazioni con il resto del mondo, cedendo all’«assedio» di Europa e Stati Uniti.
Oggi il contesto globale è favorevole. All’Ocse si sta stringendo sull’idea di una tassazione unica a livello mondiale sulle attività digitali, utile a evitare che i giganti del web possano sfruttare l’immaterialità del loro business per mettere a bilancio i profitti solo dove conviene. Negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha dato una spinta possente, avviando i negoziati per fissare una tassazione minima mondiale sul reddito delle multinazionali. È un’onda che sta montando. Quello che sorprende è che ci si arrivi solo adesso: per trent’anni abbiamo consentito un’accelerazione della globalizzazione dei capitali e delle attività delle imprese, senza però accompagnarla a una globalizzazione delle regole fiscali. È inevitabile che, finché ne hanno la possibilità, le multinazionali muovano i propri soldi da uno Stato all’altro per farli arrivare dove conviene. Così è successo, per esempio, che nel 2018 lo Stato estero in cui le aziende americane hanno dichiarato più profitti sia stata Bermuda, mentre nel 2017 il primato era andato alle Cayman. Assurdità da cui si può uscire solo attraverso una concreta e perciò 'rivoluzionaria' collaborazione tra nazioni. All’interno dell’Europa e a livello mondiale.