La mossa del cavallo
mercoledì 3 agosto 2022

«Non importa quanto tempo serve o dove ti nascondi. Se sei una minaccia, gli Usa ti scoveranno. Giustizia è stata fatta». Ai tempi di Harry Truman la si sarebbe chiamata Dottrina del contenimento, come la battezzò nel 1947 il diplomatico George Kennan. Ora potremmo dire – in ossequio a Von Clausewitz – che quello di Joe Biden è il proseguimento della politica di contenimento con altri mezzi. Per questo non occorre soffermarsi più del dovuto sulle parole con cui il presidente americano ha annunciato al Paese e al mondo l’eliminazione di Ayman al-Zawahiri, primula rossa di al-Qaeda e braccio destro di Osama Benladen fin dall’11 settembre 2001, e successivamente capo indiscusso del gruppo terroristico.

Perché se pure la longa manus dell’America ha raggiunto ventun anni più tardi il rais di al-Qaeda responsabile al pari Benladen dell’attacco alle Twin Towers, la scelta dei tempi (o dobbiamo credere che proprio ieri fortuitamente al-Zawahiri sia stato avvistato per la prima volta?), la concomitanza con la tensione crescente tra Cina e America su Taiwan e il congiunto proposito della speaker della Camera Nancy Pelosi di compiere una visita di Stato nella provincia ribelle della Cina Popolare lasciano intendere che la provocatsija americana («Washington sta portando destabilizzazione nel mondo. Non ha risolto un singolo conflitto negli scorsi decenni, ma ne ha provocati molti», così l’aggressiva Russia di Putin stigmatizza la visita di Pelosi a Taipei) unita all’eliminazione del numero uno del terrore qaedista facciano parte del medesimo intento.

Quello cioè di avvertire Russia e Cina della determinazione con cui Washington persegue da alcuni mesi la propria politica estera e della capacità americana di muoversi su ogni scacchiere mondiale, facendo in parte sbiadire la mesta figura ottenuta con la maldestra exit strategy con cui si erano chiusi i venti anni di impegno americano in Afghanistan e la non brillante missione mediorientale recentemente compiuta dallo stesso Biden.

La nuova faccia della politica estera americana, tuttavia, non è priva di rischi. Il primo dei quali è stato quello di mettere alla prova la Cina, obbligandola come in un mexican standoff (lo "stallo messicano", classico duello dei film western) a misurarsi con la decisione del Congresso di compiere una visita ufficiale a Taiwan, della cui integrità territoriale Joe Biden si è da tempo fatto garante. Sbarcata a Taipei dopo un lungo giro per evitare il naviglio cinese schierato nel braccio di mare a nord di Taiwan con le portaerei "Shandong" e "Liaoning" e nugoli di caccia Su-35 Fighter mentre a debita distanza incrociavano le americane "Uss Ronald Reagan", "America" e "Tripoli", la Pelosi ha sfidato la reazione di Pechino, nella calcolata convinzione che lo scontro aperto non convenga alla Cina e la «risposta forte e risoluta» promessa dalle autorità cinesi non sarebbe andata oltre la ferma condanna e la protesta del Ministero degli Esteri.

La "provocazione" americana dunque è andata in porto. Pechino, che lamenta una grave violazione della sovranità e dell’integrità territoriale della Cina, è stata costretta a guardare, mostrando i muscoli, gli artigli del drago e i denti a sciabola della tigre, con il larvato sospetto che il mondo cominci a considerarla di carta. Un piccolo e grande dilemma per Xi Jinping, che tra pochi mesi affronterà un Congresso di partito al quale intende strappare un terzo mandato presidenziale: ed è proprio in quella circostanza che non deve perdere la faccia, perché perderebbe con essa anche il potere.

Ma il leader cinese al tempo stesso sa che una rivalità aperta costerebbe molto cara alla Cina. Soprattutto per ciò che comporterebbero le possibili conseguenze sul piano economico. Troppo dipendente dal proprio surplus commerciale e dall’import di componenti essenziali e di prodotti alimentari, Pechino faticherebbe a far digerire un embargo occidentale.

Neppure Biden, però, è esente da critiche e da perplessità, soprattutto all’interno del suo partito. Forse il braccio di ferro con la Cina e la teatrale esecuzione di al-Zawahiri porteranno qualche manciata di voti in più alle elezioni di Midterm a novembre, impedendo ai repubblicani in buona parte ricompattati dietro la figura di Trump di assumere il controllo della Camera. Ma secondo l’ultimo sondaggio New York Times/Siena College, il 64% degli elettori democratici vorrebbe vedere un nuovo candidato presidente nel 2024. Solo il 13% degli intervistati si dichiara soddisfatto di come stanno andando le cose, mentre quelli che vedono una 'rotta sbagliata' sfiora l’80%. Eppure la mossa del cavallo, a Taiwan, per il momento è stata tutta del vecchio Biden.

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