C’è un vecchio ricordo che mi tormenta, da mezzo secolo ormai, e vorrei liberarmene. È un ricordo segreto. Non l’ho mai detto a nessuno, neanche in famiglia. Forse è giunto il momento di dirlo a tutti. Dentro di me l’ho sempre sentito come un ricordo virtuoso, che mi rendeva onore, e l’ho sempre taciuto perché non si ostenta l’onore, l’onore lo si condivide con se stessi e basta. Ma da un po’ di tempo lo sento come un ricordo sgradevole, in cui ci faccio una figura meschina, e bisogna far la pace con la propria meschinità, bisogna accettarsi. Raccontarlo è un modo per pacificarsi.
Dunque raccontiamolo. O, almeno, proviamoci. Ero appena arrivato a Torino, forse per qualcuno degli incontri pubblici che allora tenevo in giro per l’Italia. Alloggiavo sempre in qualche albergo nei paraggi della stazione. Mi piaceva l’idea di dormire in una stanza non lontana dai binari che m’avevan portato via dalla mia città: era come se i binari mi ricongiungessero a casa, e dunque come se io non fossi partito. La nevrosi di aver lasciato la casa la superavo così. A Roma non m’allontanavo dalla piazza della Stazione Termini, dove Pasolini veniva per contrattare con i ragazzi, senza neanche uscire dall’Alfa Romeo.
A Milano non m’allontanavo dalla piazza della Stazione Centrale, dove arrivavano tutti i metrò e tutti i bus. A Torino restavo nelle vicinanze di Porta Nuova, dove s’era ucciso Cesare Pavese. Se avevo un incontro o una conferenza una mattina, arrivavo la sera prima, per dormire in albergo e recuperare le energie. Quella sera – ecco il ricordo, virtuoso-vergognoso –, mi sposto a piedi dalla stazione all’albergo, vicinissimo, trascinando con me la valigia, e sento alle spalle dei passettini. Mi volto. Una bambina mi sta seguendo, avrà avuto sui quattordici anni, piccola, timida e magra, sta piovigginando, è tutta bagnata. Come mi fermo, si ferma anche lei. La guardo, dall’alto al basso.
Mi guarda, dal basso all’alto. Penso che debba parlare lei per prima. E parla infatti. Mi chiede: 'Mi vuoi?'. Senza neanche capire la domanda (sono lento di comprendonio), rispondo: 'Torna a casa'. La bambina, docile, fa dietrofront. Fine dell’incontro. E inizio della vergogna. Ripenso spesso a quella scena, risento quella pioggerella minuta, osservo quella bambina tutta bagnata, non mi pento di averla fatta tornare a casa, ma adesso, col senno del poi, mi chiedo: perché non le ho dato un po’ di soldi, allora c’eran le lire, un foglio da cinquantamila lire, non ho mai avuto molti soldi però 50mila lire potevo regalargliele, e non l’ho fatto, perché?
Tornata a casa senza aver guadagnato una lira sarà stata rimproverata, forse anche picchiata, se fosse tornata con un foglio da 50mila lire l’avrebbero complimentata, perché non l’ho fatto? Accettare la sua offerta, 'mi vuoi?', sarebbe stato un errore, le avrebbe fatto del male, e il ricordo per me sarebbe oggi un tormento insopportabile, ma darle ciò di cui aveva bisogno senza chiederle nulla l’avrebbe aiutata, e oggi lo ricorderei senza vergognarmene. Il fatto è che ero allertato ad evitare una mascalzonata, ma non a trasformare la mascalzonata in una buona azione. Non l’ho fatto. Quando torno a Torino, ripercorro quella strada e sto pronto a rimandare a casa la bambina dandole quel po’ di denaro che le serve. Ma la bambina non c’è più.