La guerra prima di tutto e, insieme, le piccole e grandi contrapposizioni Il Dipartimento universitario in cui insegno intrattiene da diversi anni rapporti di collaborazione con un Dipartimento delle stesse discipline di un’Università ucraina. Preoccupato, come tutti noi, dalle notizie della guerra con la Russia, un nostro professore ha organizzato una colletta per raccogliere fondi da inviare ai colleghi di quell’ateneo. Abbiamo messo insieme una certa somma, che è stata prontamente girata al direttore del Dipartimento ucraino. La lettera che ci ha inviato per ringraziarci è scioccante. Ci parla dei danni fisici, causati dai bombardamenti russi, alle strutture dell’Università e alle abitazioni di molti docenti e studenti, ma anche di come stiano in tutti i modi cercando di non interrompere i contatti con i ragazzi, attraverso i collegamenti a distanza, quando le condizioni lo consentono.
C’è una frase che mi ha colpito in modo particolare: «Non potete immaginare quanto ci si abitui in fretta a passare la notte completamente vestiti nelle cantine dei propri condomini». È un piccolo dettaglio, che però fa capire concretamente che cosa vuol dire essere in guerra, essere sotto le bombe,. La tua vita scorreva tranquilla fino al giorno prima: ora devi passare la notte al freddo o al caldo, ammassato con altra gente in cantina, e magari condividere il poco spazio a disposizione anche con i topi. Come si può essere così crudeli, disumani, ciechi, folli da costringere dei nostri simili a vivere, o meglio sopravvivere, in questo modo? Non parlo neanche di quello che è il male peggiore: morire sotto le bombe, come è successo a tanta povera gente che magari, come qualche giorno fa a Kremenchuk, si trovava a fare la spesa per strada o in un centro commerciale.
Ma di ciò che diventa la quotidianità per la maggior parte di un popolo imprigionato in una una guerra annosa e fatta crescere drammaticamente d’intensità dall’aggressione di una potenza molto più forte. San Paolo parla del 'mysterium iniquitatis': del male, cioè, come di un mistero insondabile. I cristiani attribuiscono l’origine del male al diavolo, che letteralmente è 'colui che divide'. Questa irrazionale e insopprimibile tendenza alla divisione sembra tipica dell’essere umano in quanto tale.
Dalle relazioni personali a quelle lavorative. In tutti gli ambienti che mi è capitato di frequentare per ragioni professionali ho riscontrato, pur con le differenze dovute ai diversi contesti, le medesime dinamiche: la propensione a creare divisioni, fazioni, cordate, basate su inimicizie (più che su amicizie), denigrazioni, attacchi spesso preconcetti. Per fortuna i rapporti tra colleghi sono anche altro, e c’è molto di buono; ma non si può nascondere che ci sia anche tanto di cattivo.
Nessuno pare essere immune da questo veleno: quasi sicuramente neanch’io che ora, dicendo queste cose, rischio di ergermi a moralista. Se, allargando la riflessione e azzardando un paragone, estendiamo tale tipo di sentimenti negativi dal piano interpersonale e sociale a quello internazionale e geopolitico, constatiamo quanto le conseguenze possano essere distruttive. La follia degli uomini sarebbe persino ridicola, se non fosse tragica. Per dirla con Guido Gozzano: »L’Eguagliatrice numera le fosse / ma quelli vanno, spinti da chimere / vane, divisi e suddivisi a schiere / opposte, intesi all’odio e alle percosse: / così come ci son formiche rosse, / così come ci son formiche nere...». Giacomo Leopardi nella 'Ginestra' invitava gli uomini a stringersi nella «social catena», unendosi contro il comune nemico, quella natura che egli riteneva indifferente alle sorti individuali. Il poeta di Recanati additava ai suoi contemporanei il valore della solidarietà, unica possibilità di consolazione in una vita che è per tutti difficile.
Ma perché la solidarietà venga assunta come guida delle proprie azioni è necessario purificare il cuore. Sostituire il «cuore di pietra» con un «cuore di carne», come recita la Sacra Scrittura. Quanto siamo stolti... Viene in mente una celebre massima del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw: «Dio ci ha dato un mondo che solo la nostra follia ci impedisce di trasformare in paradiso».