Difficile staccare la mente dal gesto dell’artificiere che, a Brindisi, ha disinnescato una bomba d’aereo sepolta dalla Seconda guerra mondiale. Così ha messo al sicuro una città, che altrimenti per l’esplosione di quella bomba poteva saltare in aria e seminare cadaveri per il raggio di mezzo chilometro.
Cosa c’è in un uomo che s’avvicina metro per metro, centimetro per centimetro, a un ordigno di morte fino a toccarlo senza paura? Fino a sedersi a cavalcioni su mezzo quintale di tritolo, con la spoletta pronta, e svitarla sapendo che basta sbagliare un minimo gesto per finire disintegrato? Intervistato, questo artificiere (un caporal maggiore) dice che una volta ha disattivato una bomba sepolta nel giardino di una casa, e alla fine dell’operazione la madre di quella famiglia ha voluto ringraziarlo offrendogli latte e biscottini, perché da quel momento i suoi figli potevano tornare a giocare nel cortile. Sì, ci dev’essere questa ebbrezza di sentirsi oggetto di gratitudine, a spingere un uomo verso un simile, non so come altro chiamarlo, eroismo. Ma quest’uomo non è l’unico. È un caporale, cioè un graduato di truppa.
Non ha stellette sulle spalle, ha soltanto il coraggio. Non comanda nell’esercito, ma lavora alla base. L’anno scorso il nostro esercito nel territorio italiano ha bonificato 1.990 bombe. Una quantità enorme. Evidentemente, la seconda guerra mondiale ci ha lasciato in eredità un territorio minato. Chi ci ha sganciato sulla testa tutte queste bombe sapeva che non tutte sarebbero esplose, ma una parte sarebbero sprofondate e rimaste in agguato, pronte a colpire nei decenni futuri. Quindi, considerava meritevoli di essere colpiti non soltanto i suoi nemici di allora, ma anche i figli e i figli dei figli.
Dopo una guerra, bisogna procedere allo sminamento e allo spolettamento. Abbiamo sempre pensato che lo sminamento fosse più pericoloso, perché i campi minati dovrebbero rispettare un piano razionale, che permetta l’individuazione delle mine e il loro prelievo a guerra finita, ma questo un nemico che veramente odia non lo fa mai, perché vuole che il popolo odiato continui a morire anche a guerra finita.
Le mine hanno di brutto che sono disposte dove non te l’aspetti. Ma le bombe hanno di brutto che sono molto più potenti. Su una mina lo sminatore può buttarsi a corpo morto e farla esplodere, basta che il corpo sia chiuso nello scafandro che abbiamo visto nel film 'The Hurt Locker' di Kathryn Bigelov. Sulla bomba non c’è scafandro che tenga. Bisogna impedire che esploda, e sloggiare la popolazione dai paraggi. Qui a Brindisi hanno allontanato 53mila persone. Un esodo biblico. La Bigelov si domanda perché i suoi sminatori continuano ad andare a caccia di mine. E risponde: «È una droga».
La droga di sentire la morte che ti scuote le costole ma non le azzanna, l’esplosione sotto lo stomaco che non te lo spappola. La droga di sfidare la morte e vincerla. Di rialzarsi in piedi sentendosi immortale. Secondo la Bigelov, chi comincia a farsi esplodere le mine sotto la pancia poi non smette più. È un drogato di esplosioni. Mi chiedo: e questi nostri soldati del Genio che cavalcano bombe cariche e innescate? Che qui in Italia han bonificato quasi 2mila bombe l’anno scorso e in Iraq mille al mese? Difficile escludere la stessa ebbrezza, l’ebbrezza di sfiorare la morte con una mano e rabbonirla. Di andare di là e tornare di qua. L’augurio è che le bombe finiscano. Che non ci sia più motivo per andare di là.