La donna sul tetto dell'auto, icona di un tempo di dolore
giovedì 26 novembre 2020

Una giovane donna in piedi sul tetto di un fuoristrada, in una via di Como. Chi passa si volta, le auto rallentano, i più non capiscono cosa faccia la sconosciuta: immobile, come aspettando qualcosa. Come aspettando qualcuno: il palazzo di fronte è l’ospedale Valduce, e al primo piano c’è il reparto Covid. Fra i pazienti c’è la mamma della ragazza. Nell’inaccessibilità degli ospedali la figlia ha avuto quest’idea, per vedere la madre. E soprattutto perché la madre, anziana, forse sgomenta, possa vedere lei. Basterebbe, se ce la fa, che si alzasse un attimo dal letto, e guardasse fuori... La figlia resta a lungo in piedi sull’auto, ad aspettare.

Di tutta la drammaticità del Covid, ciò che è più insostenibile è il distacco dai propri cari, che subiscono i ricoverati. Uomini e donne spesso anziani, di colpo separati dal compagno, da figli e nipoti; e dalla casa in cui vivono da sempre, da ogni piccola cosa cara. Arriva un’ambulanza e gli infermieri, il volto nascosto dalle mascherine, portano via il malato così com’è, senza un libro, una foto dei suoi, senza niente. I portelloni della lettiga si chiudono sulle facce dei familiari, e potrebbe essere, e talvolta è, per sempre.

È questa cesura brutale che lascia attoniti, perché non si è mai morti così, da noi; sempre è stato lasciato quel tempo per stare accanto a un malato grave o moribondo, per stringergli una mano – il tempo perché, magari, un figlio con cui non ci si parlava da anni facesse infine ritorno. Tempo prezioso di riconciliazione e perdono, tempo che vale oro. Ora, nemmeno più un minuto: il distacco può fare al malato anche una paura maggiore della morte. E in chi resta, impotente, a guardare un’ambulanza che si allontana con la sirena accesa, che strappo: come ti portassero via un pezzo di cuore. Sapere, poi, dello smarrimento di tua madre o tuo marito, laggiù, soli. Fioche la voce, al telefono; poi, un mattino il cellulare «è irraggiungibile », dice una voce registrata. In quanti, dei parenti dei cinquantamila italiani che sono morti e degli altri, ricoverati a lungo in condizioni gravi, hanno sperimentato questa tagliente, incredibile separazione. L’insopportabile lontananza da chi ci è caro, e sta soffrendo o morendo, solo. Il gesto della ragazza di Como, in piedi su un’auto per vedere la madre ricoverata, allora è un’icona di questo tempo di dolore. Ma non è unico.

A Castel San Giovanni, Piacenza, un alpino di 81 anni è andato sotto la finestra della moglie Carla, ricoverata, e, il cappello con la penna nera in testa, ha preso a suonare con la fisarmonica le canzoni che le sono care. Chissà se Carla si è affacciata? Almeno avrà sentito quelle note dal cortile: ecco, si sarà detta, è lui, non mi ha abbandonata. E a Roma, il ragazzo che si è fatto ricoverare assieme allo zio che ha la sindrome di Down, per non lasciarlo solo? Disorientato, sconvolto, l’uomo all’inizio non faceva che piangere, come un bambino abbandonato. A Lecce, pure, una madre, anche lei positiva al test, è stata accanto al figlio gravemente disabile in ospedale, per 23 giorni. Senza di lei, non sarebbe tornato a casa. Quanti altri, invece, se ne sono andati soli. Non si potrà fare proprio niente, viene da chiedersi, se i ricoveri nelle terapie intensive diminuiranno, per dare ai malati almeno un saluto da lontano? Già in un incrocio di sguardi, in certi istanti, quante cose ci si possono dire, e quanto valore hanno. L’annichilente strappo dai propri affetti in cui oggi in Italia muoiono centinaia e centinaia di persone al giorno, è qualcosa che mai avremmo immaginato.

Qualcosa che genera un’istintiva ribellione: perché è intollerabile andarsene così, senza neanche potersi salutare. I più si arrendono alla necessità, e soffrono in silenzio. Qualcuno invece, non sentendo ragione, con la limpida ostinazione di un bambino si ingegna: sale sul tetto di un’auto e aspetta, davanti a un ospedale; o prende la fisarmonica, e nel cortile di un ospedale suona sotto alla finestra della sua donna – come si faceva, un tempo, la serenata alla fidanzata. A quella musica, dall’ospedale di Castel San Giovanni molti si erano affacciati, curiosi, e poi commossi. Sentendo in sé quanto quel gesto di un vecchio alpino dicesse di noi tutti. Di noi, che avvertiamo l’improvvisa separazione da chi ci è caro come una mutilazione. E ne soffriamo, e stiamo attaccati al cellulare, o magari, dopo tanti anni, preghiamo. Scoprendo solo ora che l’essere vicini all’altro è già il senso buono di una giornata. Rimpiangendo anni di 'ciao' distratti, tornando a casa, e serate davanti a un programma stupido in tv, passate senza dirci una parola. Dio, quanto tempo perso: e ora quel tempo di colpo è finito. La ragazza sull’auto, l’alpino con la fisarmonica sotto alla finestra della sua sposa ci commuovono perché ci ricordano l’essenziale: che viviamo per l’altro, per volere bene – e che l’amore vero, è per sempre.

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