Una giovane donna in piedi sul tetto di un fuoristrada, in una via di Como. Chi passa si volta, le auto rallentano, i più non capiscono cosa faccia la sconosciuta: immobile, come aspettando qualcosa. Come aspettando qualcuno: il palazzo di fronte è l’ospedale Valduce, e al primo piano c’è il reparto Covid. Fra i pazienti c’è la mamma della ragazza. Nell’inaccessibilità degli ospedali la figlia ha avuto quest’idea, per vedere la madre. E soprattutto perché la madre, anziana, forse sgomenta, possa vedere lei. Basterebbe, se ce la fa, che si alzasse un attimo dal letto, e guardasse fuori... La figlia resta a lungo in piedi sull’auto, ad aspettare.
Di tutta la drammaticità del Covid, ciò che è più insostenibile è il distacco dai propri cari, che subiscono i ricoverati. Uomini e donne spesso anziani, di colpo separati dal compagno, da figli e nipoti; e dalla casa in cui vivono da sempre, da ogni piccola cosa cara. Arriva un’ambulanza e gli infermieri, il volto nascosto dalle mascherine, portano via il malato così com’è, senza un libro, una foto dei suoi, senza niente. I portelloni della lettiga si chiudono sulle facce dei familiari, e potrebbe essere, e talvolta è, per sempre.
È questa cesura brutale che lascia attoniti, perché non si è mai morti così, da noi; sempre è stato lasciato quel tempo per stare accanto a un malato grave o moribondo, per stringergli una mano – il tempo perché, magari, un figlio con cui non ci si parlava da anni facesse infine ritorno. Tempo prezioso di riconciliazione e perdono, tempo che vale oro. Ora, nemmeno più un minuto: il distacco può fare al malato anche una paura maggiore della morte. E in chi resta, impotente, a guardare un’ambulanza che si allontana con la sirena accesa, che strappo: come ti portassero via un pezzo di cuore. Sapere, poi, dello smarrimento di tua madre o tuo marito, laggiù, soli. Fioche la voce, al telefono; poi, un mattino il cellulare «è irraggiungibile », dice una voce registrata. In quanti, dei parenti dei cinquantamila italiani che sono morti e degli altri, ricoverati a lungo in condizioni gravi, hanno sperimentato questa tagliente, incredibile separazione. L’insopportabile lontananza da chi ci è caro, e sta soffrendo o morendo, solo. Il gesto della ragazza di Como, in piedi su un’auto per vedere la madre ricoverata, allora è un’icona di questo tempo di dolore. Ma non è unico.
A Castel San Giovanni, Piacenza, un alpino di 81 anni è andato sotto la finestra della moglie Carla, ricoverata, e, il cappello con la penna nera in testa, ha preso a suonare con la fisarmonica le canzoni che le sono care. Chissà se Carla si è affacciata? Almeno avrà sentito quelle note dal cortile: ecco, si sarà detta, è lui, non mi ha abbandonata. E a Roma, il ragazzo che si è fatto ricoverare assieme allo zio che ha la sindrome di Down, per non lasciarlo solo? Disorientato, sconvolto, l’uomo all’inizio non faceva che piangere, come un bambino abbandonato. A Lecce, pure, una madre, anche lei positiva al test, è stata accanto al figlio gravemente disabile in ospedale, per 23 giorni. Senza di lei, non sarebbe tornato a casa. Quanti altri, invece, se ne sono andati soli. Non si potrà fare proprio niente, viene da chiedersi, se i ricoveri nelle terapie intensive diminuiranno, per dare ai malati almeno un saluto da lontano? Già in un incrocio di sguardi, in certi istanti, quante cose ci si possono dire, e quanto valore hanno. L’annichilente strappo dai propri affetti in cui oggi in Italia muoiono centinaia e centinaia di persone al giorno, è qualcosa che mai avremmo immaginato.
Qualcosa che genera un’istintiva ribellione: perché è intollerabile andarsene così, senza neanche potersi salutare. I più si arrendono alla necessità, e soffrono in silenzio. Qualcuno invece, non sentendo ragione, con la limpida ostinazione di un bambino si ingegna: sale sul tetto di un’auto e aspetta, davanti a un ospedale; o prende la fisarmonica, e nel cortile di un ospedale suona sotto alla finestra della sua donna – come si faceva, un tempo, la serenata alla fidanzata. A quella musica, dall’ospedale di Castel San Giovanni molti si erano affacciati, curiosi, e poi commossi. Sentendo in sé quanto quel gesto di un vecchio alpino dicesse di noi tutti. Di noi, che avvertiamo l’improvvisa separazione da chi ci è caro come una mutilazione. E ne soffriamo, e stiamo attaccati al cellulare, o magari, dopo tanti anni, preghiamo. Scoprendo solo ora che l’essere vicini all’altro è già il senso buono di una giornata. Rimpiangendo anni di 'ciao' distratti, tornando a casa, e serate davanti a un programma stupido in tv, passate senza dirci una parola. Dio, quanto tempo perso: e ora quel tempo di colpo è finito. La ragazza sull’auto, l’alpino con la fisarmonica sotto alla finestra della sua sposa ci commuovono perché ci ricordano l’essenziale: che viviamo per l’altro, per volere bene – e che l’amore vero, è per sempre.