mercoledì 26 settembre 2012
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Dalla tormentata provincia siriana di Homs giunge una cartolina di guerra drammaticamente esemplare: 240 contadini del villaggio di Rableh a ridosso del confine libanese, appartenenti alla comunità greco-cattolica, erano stati rapiti da gruppi armati e ammassati in una scuola in attesa che le trattative per il rilascio – avvenuto ieri dopo ore di angoscia – andassero a buon fine. Il che non ha evitato che alcuni cristiani venissero trovati uccisi appena due giorni prima nella stessa zona.Ma chi sono questi gruppi armati? Da dove vengono, chi li finanzia? Mai come oggi nel caotico puzzle siriano è difficile separare i reprobi dagli eletti, i buoni dai cattivi, coloro che aspirano alla giustizia e alla pace e coloro che vi si oppongono con tenacia, per il semplice fatto che sulla via di Damasco queste sono ormai categorie logore. Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro. Un grande sanguinoso scontro è in corso all’interno del mondo islamico fra la confessione sunnita e quella sciita, un braccio di ferro che vede da una parte l’Arabia Saudita e il Qatar e dall’altra l’Iran, i primi come grandi finanziatori e protettori della primavera libica ed ora dell’Esercito di liberazione siriano, dall’altra Teheran come braccio ideologico e grande elemosiniere di Hezbollah, degli sciiti iracheni, e da ultimo di Bashar al-Assad, presidente-dittatore di confessione alawita, dunque appartenente alla «famiglia» sciita.Di fronte alle prime scintille di rivolta il mondo occidentale ha guardato con favore a quell’opposizione che  reclamava la fine della dittatura, delle torture, dello strame dei diritti umani, di un regime che molto aveva in comune con quello libico e che altrettanto spietatamente spegneva ogni focolaio di rivolta. Non per nulla il giovane Assad ha avuto un maestro d’eccezione: suo padre Hafez nel 1982 fece massacrare decine di migliaia di insorti nella città di Hama all’indomani di un’insurrezione guidata dai Fratelli musulmani. All’epoca la si sbandierò come una vittoria laica – quella del partito Baath da cui Assad aveva preso le mosse per conquistare il potere – nei confronti della dittatura wahhabita, quella dei sunniti di Ryahd e dei Fratelli musulmani. Con il passare dei mesi l’opposizione siriana ha preso coloriture più radicali, venature fondamentaliste, salafite, jihadiste, fino a subire una conclamata infiltrazione di elementi vicini ad al-Qaeda, gli stessi che vedemmo con i nostri occhi nei campi di addestramento in Libia già nei primi mesi della rivolta in Cirenaica e che molto più forti e armati di un tempo hanno preso parte pochi giorni fa all’assalto al consolato americano. È ormai evidente che fra le file degli insorti c’è chi punta al caos e ne approfitta e chi fomenta odii interreligiosi per aumentare l’instabilità e le opportunità di fare facile bottino degli inermi. I cristiani in questo contesto sono dei fragili vasi di coccio, in Egitto come in Libia, a Baghdad come a Damasco. L’insicurezza, il timore della persecuzione non fanno che alimentare e ingrossare la diaspora cristiana, come già è accaduto e accade altrove.Non stupisca dunque che per uno dei frequenti paradossi della storia molto spesso siano proprio i dittatori a garantire al meglio la sopravvivenza delle minoranze: accadeva nell’Iraq di Saddam come nella Libia di Gheddafi e non dobbiamo meravigliarci che le confessioni o le etnie minoritarie come i cristiani siriaci (ma anche i drusi e i curdi) guardino con apprensione al dopo-Assad nel timore che un governo sunnita a forte impronta fondamentalista li privi dell’esile ma indiscussa autonomia che Assad comunque garantiva loro. Quell’Assad il cui regime «deve finire», come ha dichiarato ancora una volta ieri il presidente Obama in apertura dell’assemblea generale dell’Onu, ma il cui destino è sospeso in uno stallo politico che nonostante la catasta di ventimila vittime, del milione e duecentomila profughi interni e dei 360 mila fuoriusciti che la guerra civile ha già provocato, resta appeso al veto apparentemente inespugnabile di Russia e Cina. Al quale fa da corredo l’inefficacia negoziale dei vari inviati del Palazzo di Vetro, Kofi Annan prima, Lakhdar Brahimi oggi, mesti messaggeri di una paralisi del Consiglio di sicurezza che impedisce l’applicazione del principio della Responsability to protect, quella responsabilità di proteggere i civili che funzionò nei confronti della primavera libica e che nel caso siriano invece si è inceppata. Come sembra inceppata ogni soluzione che non offra un quadro di tragica desolante impotenza. Di cui sono sempre i più deboli a fare le spese.
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