Chi fermerà Boris Johnson? Chi impedirà al dondolante primo ministro britannico di assestare altri fendenti a destra e manca pur di restare barricato a Downing Street il più possibile? Questo si chiedevano i giornali inglesi solo due settimane fa. La risposta è arrivata da sola: se stesso. Molti già vedevano da tempo nei suoi comportamenti parecchie similitudini con le convulsioni finali della presidenza di Donald Trump sino all’attacco del 6 gennaio a Capitol Hill. Anche in quel caso Trump era disposto a tutto, al 'dopo di me il diluvio'. A mentire sapendo di mentire sul 'baro Biden' e sulla sua 'falsa' vittoria alle presidenziali del 2020. Johnson è stato messo sotto inchiesta dal partito per i festini durante il lockdown per il Covid, ma i Tory non erano riusciti a farlo cadere.
A Westminster la quinta colonna conservatrice non aveva trovato i voti per la sfiducia al proprio premier. Poi Johnson ha continuato nel suo lavoro preferito: fabbricare la corda che lentamente lo impiccherà politicamente. L’economia, (come quelle di molti altri Paesi, a dir la verità), va a rotoli e l’inflazione è divorante. La Gran Bretagna sperimenta il più imponente degli scioperi dei trasporti, che sta riportando (per dimensioni) l’Isola ai tempi duri dello scontro frontale tra la Thatcher e i minatori.
A giorni sarebbe dovuto partire il secondo volo da mezzo milione di sterline con i profughi da deportate in Ruanda, dopo il fallimentare primo tentativo fermato dalla Corte Europea per i diritti umani. Gli afghani da spedire via, però, forse tireranno un sospiro di sollievo Sembrano esserci, insomma, tutti i presupposti per il benservito a Boris e oggi è pronta a saltare dalla barca che affonda anche il fedele nostromo, quella Priti Patel che lo ha invitato a mollare e che tanto aveva lavorato per organizzare quei (salvifici nei consensi a destra) voli verso Kigali.
Ora il partito però ha trovato la forza per dire basta: la fuga di ministri è stata ufficialmente giustificata con lo scandalo delle mani fuori posto di un indifendibile (se non dal premier) deputato. Il tutto in una nazione che ha insegnato al mondo la democrazia, e che non ha certo mezze misure quando si tratta di fare piazza pulita di leader inadeguati. Eppure non succedeva. E la risposta che il premier offriva di giorno in giorno diventava sempre più drastica, estrema e insidiosamente populista: da qui le affinità con Trump. Fino a diventare da ultimo il più fervente armiere della guerra in Ucraina, pronto a fornire consiglieri-istruttori sul campo e missili a sempre più lunga gittata.
Avversando, apertamente o con altri mezzi, le iniziative di de-escalation. Da ultimo ha giocato anche la carta più popu-lista che si possa pescare in Inghilterra: la Brexit. Johnson è colui che vuole stracciare platealmente, e gettare nel braciere, il Protocollo sul Nord Irlanda e sul confine esterno tra Regno Unito e Ue. Neanche Nigel Farage era arrivato a tanto. Così, come in ogni crisi che si rispetti, l’inquilino di Downing Street e i suoi 'consigliori' (prima che lo lasciassero) avevano scelto da tempo la gran cassa populista: immigrati e Brexit garantivano più o meno il risultato.
Confidando in un colpo d’ala che avrebbe fatto riprendere quota al partito, ma soprattutto a lui. Con un Partito dei Tory che (è vero) ha perso anche le ultime suppletive, ma ha di fronte il Labour che non vince, e che ha poche chance di ottenere il ribaltone con Keir Starmer alla guida. La premier donna che lo ha preceduto a Downing Street, Theresa May, è caduta di luglio, ma il voto arrivò in autunno. Chissà che per allora il tentativo di costruire una forza di centro di un altro ex premier (caduto male dal trono) possa portare qualcosa di nuovo: Tony Blair e il partito che ha fondato ci credono.