Il bello della democrazia è che non si conosce il nome del vincitore prima di andare a votare. Un’esperienza del tutto nuova per gli egiziani che si sono recati alle urne per le prime elezioni libere di un presidente nella storia del mondo arabo. Il brutto può arrivare dopo, con l’esito del voto. I risultati ufficiali saranno resi noti fra qualche giorno, ma sulla base dei primi dati sembra quasi certo che ad affrontarsi nel cruciale ballottaggio del 16 e 17 giugno saranno un rigido islamista come Mohammed Mursi, esponente dei Fratelli Musulmani, ed un militare legato al vecchio regime come Ahmed Shafiq, già capo dell’ultimo governo di Mubarak. A sorpresa hanno raccolto più voti dei candidati che risultavano in testa nei sondaggi della vigilia, i cui pronostici andavano a favore di Amr Moussa, l’ex segretario della Lega Araba che si presentava come garante della laicità, e di Abul Fotouh, islamista moderato, in aperta polemica con la Fratellanza di cui era autorevole membro fino ad un anno fa. Il vecchio diplomatico e il non più giovane professore si erano scontrati duramente in un faccia a faccia televisivo dando l’impressione di considerarsi reciprocamente come l’avversario da battere. A quanto pare gli elettori non hanno gradito la loro baldanzosa sicumera, ripiegando su candidati tipo "usato sicuro". La gran parte degli egiziani ha seguito le indicazioni dei Fratelli Musulmani che anche questa volta hanno messo in campo la potentissima macchina organizzativa con cui avevano ottenuto un grande successo nelle elezioni parlamentari. E così, sebbene Mursi fosse "una ruota di scorta", un funzionario grigio chiamato a sostituire il ben più autorevole al-Shater, (escluso dalla gara presidenziale insieme a tanti altri aspiranti), ha finito con il raccogliere il più alto numero di consensi. Sul versante opposto coloro che non vogliono uno Stato teocratico all’insegna della sharia hanno preferito puntare sulla figura di un laico convinto, benché legato all’ex rais, come il generale Shafiq, uomo d’ordine sostenuto dai cristiani copti che si sentono minacciati dall’estremismo islamico. L’Egitto si trova ad un bivio drammatico. Se il nuovo Faraone destinato a succedere a Mubarak sarà l’islamista Mursi il mondo dovrà prendere atto che il movimento dei Fratelli Musulmani ha conquistato tutte le leve del potere nel più importante Paese arabo, pilastro fondamentale degli equilibri geo-politici in Medio Oriente. Un’eventualità cui la giunta militare di Tantawi, la sfinge che veglia sulla complicata transizione egiziana, potrebbe cercare di opporsi in tutti modi, anche con un golpe. Se invece dovesse trionfare il generale Shafiq, riesploderebbe la protesta di piazza Tahrir. I giovani rivoluzionari della primavera araba non sono riusciti a costituire un nuovo soggetto politico, ma non hanno perso la capacità di mobilitazione, soprattutto contro un
felul, un residuato del vecchio regime che avesse l’ardire di sedersi sulla poltrona presidenziale. Ed è facile prevedere che a dare man forte alla protesta sarebbero i movimenti islamici, proprio come accadde quindici mesi fa. Scenari diversi, ma tutti inquietanti, aggravati dal fatto che l’Egitto non ha ancora una nuova Costituzione, perché l’Assemblea che dovrebbe redigerla è paralizzata dai veti incrociati dei suoi membri. Come ha fatto notare il giornale
al-Ahram, eleggere un presidente prima di averne fissato le prerogative è lo stesso che celebrare le nozze in assenza di un codice matrimoniale. Votare non basta, ci vogliono delle regole. È il bello, e il difficile, della democrazia. Anche di quella che si vuole costruire all’ombra delle Piramidi.