C'è uno scacco culturale che blocca la capacità di affrontare con successo le tante questioni del nostro tempo: nel mondo interconnesso in cui viviamo, continuiamo a ragionare e ad agire nella logica della indipendenza, quando tutto è diventato interdipendente.
Nelle scienze contemporanee le teorie dei sistemi complessi – in particolare quelli viventi – dicono che il tutto è superiore alla parte. Un principio richiamato anche da Papa Francesco nella Evangelii gaudium.
Sostenere questo non implica che la parte scompaia, assorbita da una logica di sistema. Più semplicemente, ciò significa che ogni elemento, che pure gode di autonomia, esiste solo in relazione al tutto e agli altri.
Quest’idea semplice – antica e oggi riconosciuta dalla scienza – non riesce a diventare cultura comune, cioè a orientare le scelte dei grandi decisori, politici ed economici, e a trasformare il modo di vivere e di organizzare le nostre società. Col risultato di impedire l’adozione di quella prospettiva che è necessaria per sciogliere i nodi complessi del nostro tempo.
Prendiamo la questione della sostenibilità. La consapevolezza che il nostro modello di crescita crea effetti distruttivi sull’ecosistema ha fatto finalmente molti passi in avanti. Ma si fatica a trovare le soluzioni. Ognuno (Paese, impresa, cittadino) guarda la questione dal proprio punto di vista, facendo bene attenzione a non pagare più degli altri. Ma così diventa difficile, se non impossibile, riuscire a compiere le scelte che pure sappiamo di dover prendere. Gli scienziati ci dicono che, con una ragionevole certezza, intere regioni del globo sono destinate a subire un drastico peggioramento delle proprie condizioni di vita. Già nel 2022 i migranti forzati sono stati più di 100 milioni, di cui un terzo per ragioni climatiche (questi ultimi destinati a diventare, secondo la Banca Mondiale, più di 200 milioni nel giro di due decenni). Se questo è lo scenario, possiamo ragionevolmente pensare che esistano soluzioni (muri e “ricollocamenti”) che non affrontino le ragioni della mobilità umana?
La verità è che sostenibilità e migrazioni sono questioni da affrontare insieme attraverso politiche di collaborazione in grado di gestire una problematica (il cambiamento climatico) che ha effetti diversi sui singoli territori, pur derivando da una causa comune. Nessun Paese, nessuna impresa, nessun individuo può immaginare di gestire questo nodo senza considerare le interconnessioni globali.
Un secondo esempio viene dalla guerra, in particolare da quella in Ucraina. La sciagurata decisione di Putin di attaccare uno Stato vicino, con l’obiettivo di spostare di qualche centinaio di chilometri il confine russo, si è rivelata del tutto sbagliata, anche perché anacronistica. Una decisione presa con le categorie dell’Otto-Novecento. Come onde telluriche, le conseguenze della guerra in Ucraina si sono diffuse ovunque attraverso la crisi delle forniture di energia, di grano e delle altre materie prime, gli effetti inflazionistici, la ridefinizione dei rapporti geopolitici. La guerra è sempre sbagliata. Ma lo è ancora di più in un mondo in cui le interdipendenze fanno sì che le questioni locali siano sempre, contemporaneamente, globali. Ed è chiaro oggi che la via d’uscita dal tragico errore di Putin va cercata a partire dagli annodamenti che si sono stretti ancora di più negli ultimi 16 mesi.Le diverse parti del pianeta sono sempre più legate a un destino comune. A valle del grande salto prodotto dalla globalizzazione della fine del XX secolo, oggi ci troviamo a un punto di non ritorno: in questa nuova configurazione storica (bisogna insistere sulla sua novità, ancora troppo poco riconosciuta) è necessaria una conversione dello sguardo.
O meglio, una nuova intelligenza che, mettendosi in ascolto della realtà (per citare di nuovo la Evangelii gaudium, «la realtà è superiore all’idea»), sia capace di mettere da parte quell’ottusità che deriva dal porsi nel mondo esclusivamente dal proprio punto di vista: mai come oggi è evidente che nessuno si salva da solo, che siamo tutti legati, che c’è un bene dell’intera umanità da cui bisogna partire per risolvere le questioni locali, che ogni interesse particolare è legittimo solo in rapporto all’interesse generale. Una prospettiva peraltro necessaria per arrivare a immaginare e costruire quelle nuove istituzioni di cui abbiamo urgente bisogno per dirimere i conflitti, delineare tempi e modi della transizione, reindirizzare le ingenti risorse finanziare disponibili, gestire le emergenze.
C’è troppa gente in giro che continua a guardare il presente con gli occhiali vecchi del secolo scorso. E che, proprio per questo, causa grandi disastri e altrettante sofferenze.