Condanna. Adesso può sembrare un esito scontato, dopo un dibattimento che ha accumulato prove a dimostrazione di una terribile verità sulla morte di Stefano Cucchi. Ma in realtà si tratta di un risultato raggiunto soltanto a prezzo di un impegno eccezionale, e prolungatosi per un decennio, contro ostacoli che parevano insormontabili.
Molla e poi perno costante, la tenacia con cui la famiglia della vittima (e in particolare la sorella Ilaria) ha portato avanti, sin da subito, la contestazione delle omissioni, delle bugie, delle coperture da cui quella morte è rimasta a lungo avvolta; ma ne sono state componenti importanti anche altri fattori: oltre alla svolta a un certo punto impressa alle indagini nell’ambito della Procura di Roma, l’atteggiamento maturato ai vertici stessi dell’Arma dei carabinieri, e soprattutto gli ancor più coraggiosi colpi inferti al muro di omertà da testimonianze destinate a essere essenziali, seppur non indolori per chi le ha rese.
Sensibile il divario tra le pene richieste in udienza dal pubblico ministero e quelle inflitte dalla Corte di assise (dodici anni anziché diciotto per i principali imputati): a quanto sembra, è la conseguenza di una diversa comparazione tra le circostanze, aggravanti e attenuanti, che potevano riconoscersi rispetto al fatto dell’omicidio preterintenzionale, ossia alla constatazione della morte causata da gravissime lesioni volontariamente inferte. In pratica, è un dato assai tangibile: anzitutto, com’è ovvio, per i condannati, qualora se ne abbia conferma negli ulteriori gradi di giudizio.
Ma, in controluce, sono gli immediati commenti alla sentenza da parte dei familiari di Stefano Cucchi a suonare significativi per tutti, e anche perché - a differenza di quanto accade spesso - proprio la questione dell’entità della pena non ne è venuta in primo piano: importante, per loro, è stato che i giudici abbiano risposto a quell’ansia di verità e di rispetto per la persona del loro caro, che li ha animati; il che sembra allontanare, in questo caso, il pericolo sempre incombente, del superamento del labile confine tra la richiesta di giustizia e il desiderio di vendetta.
Stonano, per contro, battute come quella attribuita al senatore Salvini, sia pur a corredo del commento («chi sbaglia paghi») di cui gli va dato atto. Certo, «la droga fa male» ed è sacrosanta la lotta al consumo e allo spaccio, ma evocarla in un caso come questo dovrebbe essere l’ultima cosa a venire in mente. Qui, a quanto pare, si è trattato di pestaggi contro un persona detenuta e per di più non in grado di difendersi: "drogato" o non "drogato", non cambia nulla. O no?
Tornando alla sentenza della Corte di assise, è chiaro che essa non fa calare un sipario definitivo sui risvolti giudiziari di una vicenda umana comunque tristissima: e, questo, non solo perché ci si attende che contro le condanne gli imputati propongano appello e poi, eventualmente, ricorso per cassazione, com’è loro indiscutibile diritto.
Nel contesto, ci sono altri due processi tuttora aperti. Il primo di essi concerne alcuni medici, accusati di omissioni e negligenze non estranee alla serie causale produttiva della morte di Cucchi: al riguardo è stata emessa a sua volta sentenza in primo grado, contemporaneamente a quella sulla quale erano puntati i riflettori; ma soltanto una degli imputati è andata assolta; per gli altri, è ancora una volta la pronuncia di un proscioglimento per prescrizione che, non dissolvendo l’ipotesi di una colpa, lascia l’amaro in bocca (a onor del vero, nella specie, anzitutto in chi si è battuto, e verosimilmente si batterà ancora, con le impugnazioni, per veder dichiarata quella che ritiene la propria innocenza).
Momento cruciale, dal punto di vista della credibilità delle istituzioni, sarà però, soprattutto, il giudizio che si aprirà in dicembre, per le ipotizzate coperture, a vari livelli, della tragica verità faticosamente venuta a galla (solo una parziale anticipazione se n’è avuta in assise con una condanna accessoria rispetto a quella dei principali imputati). Scorretto, prima del contraddittorio dibattimentale, scommettere sull’uno o sull’altro esito. Quel che importa è che, anche qui, si badi alle verità e non ad altri presunti valori. Le istituzioni, in uno Stato di diritto, si difendono, non negando o nascondendo eventuali piccole o gravissime brutture e neppure offrendo capri espiatori, ma avendo il coraggio di andare fino in fondo per accertare se queste si sono davvero verificate o meno, e per trarne tutte le conseguenze.