La mia prima reazione alla morte di Stephen Hawking è aprire il cellulare e ascoltare il rumore delle onde gravitazionali: fu messo in rete al tempo della sua prima registrazione, l’ho scaricato sul telefonino, e lo ascolto quando ho bisogno di sapere da dove veniamo e dove andiamo. Non è il cuore del sistema di Hawking, il cuore sono i buchi neri. Ma le onde gravitazionali sono prossime ai buchi neri, ne sono figlie. Le onde che ho registrato hanno avuto origine un miliardo virgola 300 milioni di anni fa, per la reciproca attrazione di due galassie che si son fatte sempre più vicine fino a danzare una intorno all’altra, in un giro che s’è fatto vorticoso e, alla fine, incontenibile: le galassie si son gettate una in braccio all’altra, fondendosi e distruggendosi, e le onde giunte fino a noi, scorrendo lungo l’autostrada dello spazio-tempo, sono il rumore di questa reciproca distruzione.
Per il sistema di Einstein e di Hawking, quello è il rumore della fine. E com’è questo rumore, cosa sentiamo? Uno sfrigolìo, come la scarica elettrica di due cavi che si toccano e si fulminano. Nelle rappresentazioni grafiche le due galassie sono due vortici, due masse che ruotano intorno al proprio asse, raffigurato come un buco, e ruotando si avvicinano finché i due buchi diventano un solo buco, poi nulla. È il Dies irae dell’universo. Quello che solvet saeclum in favilla. Mai espressione fu più precisa. Noi siamo transeunti. E non saremo sempre qui. Hawking ci ammoniva: dovete spostarvi su altri pianeti. Diceva anche – frase oscura per me che in queste cose brancolo nel buio come un cieco nel mezzogiorno – che saranno quelli di altri mondi a venire da noi per primi, e questo incontro «non sarà una bella cosa per l’umanità».
Che significa? Gli abitanti di altri mondi sono nostri nemici? Hanno ragione le saghe delle galassie? Dobbiamo potenziarci? Per potenziarci creiamo l’intelligenza artificiale, ma questa finirà per dominarci, saremo schiavi dei computer e dei robot. Lo siamo già. Il primo computer che ho avuto era un piccolo Macintosh, che portava installato dentro di sé un gioco, una dama cinese, col quale sfidava l’utente: ho fatto tante partite contro il mio computer e ha sempre vinto lui, e a ogni vittoria apriva una finestra e scriveva: «Un’altra tacca sul calcio del mio fucile».
Finirà così? Non lo so, ma so che con la sua vita Hawking c’insegna un’infinita resistenza. Hawking era malato di Sla, ma ha vissuto una vita lunga e piena. Fin da giovane era impedito nella parola, nella comunicazione e nello spostamento, ma per tutta la vita ha comunicato. S’è costruito un computer che gli dava perfino la voce. E la sua non era comunicazione, cioè un parlare di massa, era espressione, cioè un parlare da genio. Nel suo campo era il primo scienziato al mondo, anche se non ha avuto il Nobel. Era paralizzato ma andava ovunque ci fosse qualcuno con cui parlare, a cui dire, da cui ascoltare.
È stato a Roma dal Papa. L’uomo è composto di anima e di corpo, e la sua attrazione, l’interesse che suscita, diciamo – con termine da letteratura rosa – la sua amabilità, vien dalla somma delle due componenti. Hawking era altamente amabile, aveva amici, estimatori, moglie, anzi mogli. Una lo definisce «un tiranno», segno che nel rapporto dare-avere il marito riteneva di dare di più, e quindi pretendeva di più. Il miracolo di Hawking è questo: aver patito tutti gli ostacoli che volevano paralizzargli la vita, e aver vissuto tutta la vita nella pienezza creativa e inventiva. La sua lezione scientifica è alta, ma la sua lezione umana è più alta ancora. Vinta la battaglia d’Inghilterra, Churchill ringraziò i piloti della Raf con queste parole: «Mai tanti dovettero così tanto a così pochi». Potremmo ricordare Hawking con una parafrasi: «Mai un uomo si spinse così lontano da una condizione così imprigionata».