Occorre ridare il giusto significato alle parole e ai verbi, smetterla di addolcirli, addomesticarli; anche se ci fanno male, hanno il diritto a esprimere, o, almeno, ad avvicinarsi alla verità. Santo Romano, 19 anni, non è morto, è stato assassinato. A San Sebastiano al Vesuvio, cittadina alle falde del vulcano napoletano che ci affascina e ci spaventa. Il suo assassino ha qualche anno in meno di lui, un minorenne, quindi, anche se ormai non sappiamo più dire con esattezza dove passi la linea di demarcazione tra la minore e la maggiore età. Sono passati solo pochi giorni da un altro, orribile, omicidio, quello di Emanuele Tufano, il quindicenne ucciso durante una sparatoria tra bande rivale nel cuore di Napoli.
Questa volta non c’è stata nessuna sparatoria, la vittima non era armata, l’assassino ha ucciso Santo e ha tentato di uccidere i suoi amici in seguito a una lite scoppiata per un motivo talmente banale da incutere spavento nei genitori con figli adolescenti la cui età cronologica va ancora d’accordo con quella esistenziale. L’assassino è da poco uscito dal carcere minorile, ha alle spalle una famiglia problematica, suo padre è in carcere; si atteggia a piccolo guappo, le foto sui social lo ritraggono con le pistole – vere o finte cambia poco – in mano, mentre scherza, si vanta con gli amici, tenta di incutere paura.
La situazione è talmente seria, che il prefetto di Napoli, il dottor Michele Di Bari, ha convocato, domenica scorsa, nella casa comunale di San Sebastiano, un comitato straordinario di “ordine e sicurezza”, allargato poi ai sacerdoti, ai sindaci della zona, ai comitati vari, ai cittadini, mentre, nella chiesa parrocchiale, il vescovo di Napoli prega e parla a migliaia di giovani accorsi all’invito del parroco, don Enzo Cozzolino. Una fiumana di persone, poi, sfila per le vie del paese. Ci sono anch’io. Durante gli incontri, ascolto con attenzione le illustri personalità che, con competenza, analizzandola situazione, denunciano, propongono soluzioni.
La mia mente, però, vaga. Mi ritornano alla mente alcuni versi di quel grande poeta che fu Clemente Rebora: «Qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo non è per questo. E così tutto rimanda a una segreta domanda, l’atto è un pretesto…». Sembra che la causa scatenante che abbia fatto saltare i nervi al giovane assassino sia stata, ancora una volta, il pestaggio di un suo piede. Ancora una scarpa sporcata, quindi. Chi lo avrebbe detto che la scarpa, l’oggetto che indossiamo a contatto con la terra, col fango, destinato quindi a insozzarsi, sarebbe diventata, nel tempo, il feticcio cui sacrificare la vita propria e quella altrui.
Ma è veramente così? O non fu solo un pretesto? Possiamo, oggi, permetterci di deviare dalle solite strade battute e imboccarne una che, chissà, pur tra tanti distinguo, potrebbe almeno avvicinarci alla verità? Al ragazzo con la pistola interessava davvero la sua scarpa o aveva un malessere interiore, un’invidia per le fortune altrui, una rabbia che gli covava dentro forse fin dall’infanzia? Perché nemmeno il carcere di Nisida, con i suoi professionisti così attenti ai giovani ospiti, è riuscito a sortire qualche effetto su di lui? C’era in questo ragazzino un “grido dentro” che non siamo stati capaci di intercettare? Possiamo ritornare a parlare, almeno noi cristiani, di Dio ai nostri figli? Siamo in grado di far loro toccare con mano la trasformazione che si scatena nelle nostre vite quando gli apriamo la porta del cuore? Qualche ingenuo pensò e scrisse che eliminando Dio dal proprio orizzonte, l’uomo sarebbe stato più libero, più autentico.
È accaduto l’esatto contrario. “Se pò campà senza sapè pecchè ma non se pò campa senza sapè pe chì” dice un antico detto napoletano. Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi. L’uomo non basta a sé stesso. Soli si muore. Anche questi ragazzini che spaventano hanno il terrore della solitudine, la propria banda gli è indispensabile. Il bisogno di appartenenza è più forte di quanto si voglia ammettere. I social hanno amplificato e deformato questa esigenza. Senza un motivo o una persona per cui vivere, le giornate sono pesanti, il tempo scorre inutilmente, il vuoto incombe e chiede di essere riempito. Quando si ha fame qualunque cibo è buono per metterla a tacere. “I preti debbono chiedersi perché le chiese sono vuote” ha detto, domenica, uno dei partecipanti al tavolo. Giusto. Lo facciamo. Non c’è incontro del clero in cui non si discute anche di questo.
La domanda, però, deve essere estesa a tutti i cristiani. È pura fantasia pensare che un prete da solo possa sostituirsi al dovere faticoso e nobile dei genitori di “educare i figli nella fede” e quindi nella vita. Siamo tutti sulla stessa barca. Se affonda periremo insieme. Ammettiamolo, ci siamo illusi – atei, agnostici e cristiani di facciata – che la fede fosse un di più, un orpello, al massimo un’emozione, qualcosa da tirare fuori in certe occasioni per poi continuare a vivere come “se Dio non ci fosse”. Ne stiamo pagando il prezzo. Espulso Dio dal trono che gli spetta di diritto, tutto va in frantumi. Quel trono fa gola a tanti, non resta mai vuoto, qualcuno o – peggio – qualcosa lo occuperà.
Ed eccola qua, la scarpa, per quale uccidere e giocarsi la vita. Togli “questa” scarpa a “questo” ragazzo e si sentirà perduto. Strappagli dalle mani la pistola - con la quale si è convinto, ed è stato convinto dagli amici più poveri di lui, che è assurto a capo - e avrai di fronte il ragazzino fragile con il cuore zeppo di rabbia e di livore. La scarpa, la pistola, gli abiti firmati, la moto potente, altro non erano che pretesti. Questi ragazzi gridano un malessere che non sanno esprimere a parole. Lo vogliamo capire? Non appartengo alla lista dei buonisti. Le pene debbono essere certe e severe. Ma, per carità, riprendiamoci i nostri spazi, ripopoliamo i nostri quartieri e le nostre chiese, corriamo in aiuto ai nostri figli. E allarghiamo lo sguardo e il cuore ai meno fortunati. Cacciamo dai loro cuori la rabbia, l’odio, la sete di vendetta, prima che si traducano in violenza bieca. Parliamogli di Dio. È quello che cercano pur senza saperlo.