L’instabilità raggiunge il cuore dell’Europa, quel ridotto tedesco che, nel bene e nel male, ha rappresentato in questi anni il fulcro della tenuta della 'Fortezza Europa': una fortezza assediata dall’interno, in realtà, dalle contraddizioni mai risolte e dagli egoismi nazionali, piuttosto che da immaginate ondate migratorie. Il braccio di ferro tra la cancelliera Angela Merkel – comunque ormai alla fine del suo lungo ciclo di potere – e il leader della Csu (il partito-fratello bavarese della Cdu) e ministro dell’Interno federale Horst Seehofer ha un significato univoco. La frattura che attraversa le opinioni pubbliche del Vecchio Continente, che oppone Paesi di confine e Paesi di arrivo secondario dell’Unione, ora è arrivata fin dentro la coalizione e il Governo di Berlino.
È la testimonianza di quanto sia grave la crisi politica sulla questione dei migranti, lasciata senza nessun serio tentativo di governance per un tempo colpevolmente lungo, per anni, nei quali ognuno ha utilizzato le norme e gli accordi vigenti – o la loro contestazione – semplicemente in chiave strumentale, per tutelare non l’interesse nazionale (non scomodiamo un concetto tanto elevato), ma molto più banalmente il proprio tornaconto politico elettorale. Ancorché in termini numerici non si sia in presenza di una crisi umanitaria paragonabile a quella degli ultimi tre anni, è ben difficile negare che esista una crisi politica: sull’accoglienza (permanente o temporanea) delle persone salvate e persino, fa male doverlo registrare, sul salvataggio in mare delle persone profughe e migranti da parte di imbarcazioni 'non militari'.
È comunque il mancato accordo su che fare 'dopo' che le persone sono state tratte in salvo, la non volontà di affrontare questo oggettivo problema da parte dei Paesi che non sono toccati direttamente dai flussi migratori a rendere complicato il 'prima', ed espone a rischi molto gravi le persone che i trafficanti di esseri umani non esitano ad abbandonare in mare su natanti inadeguati e sovraffollati. L’indisponibilità della politica europea, degli Stati e dell’Unione nel suo complesso, a farsi carico collettivamente di un problema che non può riguardare solo l’Italia, Malta o la Grecia si ripercuote con un effetto devastante sulle strutture politiche della Ue, avvelena i rapporti tra gli Stati membri e ora si infrange persino all'interno del governo del Paese più importante dell’Europa, anche se sempre riluttante ad assumerne la leadership effettiva. Piaccia o non piaccia l’Unione arranca per la sua difficoltà a comportarsi unitariamente di fronte alle sfide che il vorticoso cambiare del mondo intorno a lei pone di continuo.
Il progressivo allentarsi della struttura dell’ordine liberale internazionale, imperniato sulla leadership degli Stati Uniti e sulla solidarietà occidentale, sta accelerando. Lo stesso concetto di Occidente, nella sua accezione politica, all’interno del quale l’Unione è stata pensata, realizzata e ampliata, è di fatto venuto meno con le mosse di Donald Trump, che tratta Cina e Germania, sfidanti e alleati nella stessa identica maniera. Su questo fronte occorrerebbe cominciare a chiedersi quanto ancora credibile sia l’alleanza transatlantica, soprattutto nella sua capacità di deterrenza. Certo, il Trattato dell’Atlantico del Nord è sempre lì, con il suo articolo 5 che prevede che «l’attacco contro ognuno sarà considerato un attacco contro tutti».
Ma quanto è ancora credibile in un mondo così cambiato, dove il presidente degli Stati Uniti 'si lascia scappare' che forse si potrebbe riconoscere l’annessione russa della Crimea e ostenta più attenzione per la Russia di Putin che per Londra o Berlino o Parigi o Roma? Come ha sottolineato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri, non è per nulla un caso che «man mano che si indebolivano i legami transatlantici, si imballava anche il motore europeo» ed è pericoloso illudersi che il venir meno della centralità strategica dell’Europa per gli Stati Uniti sia di per sé in grado di spingere l’Unione ad assumersi una maggiore responsabilità internazionale. Semmai fino ad ora è accaduto il contrario. Tutte le volte che gli Stati Uniti hanno latitato, l’Europa si è disunita.
Le montanti contraddizioni europee rischiano di non poter essere più governate né le divergenze e i distinguo tollerati, se viene meno il contenitore più ampio dell’Occidente, al cui interno si inscrive l’unità europea. La fine dell’Occidente e la crisi dell’ordine liberale internazionale rischiano di far saltare la tenuta dell’istituzione – l’Unione Europea – che più di molte altre ha rappresentato la più plastica rappresentazione di un mondo ispirato agli ideali dell’ordine liberale e democratico. Un mondo nel quale le sovranità nazionali tornino a contare e a essere giudicate meritevoli di tutela non è per nulla fatto a misura dell’Unione Europea che sulla prospettiva di lungo periodo del superamento delle sovranità nazionali non solo ha costruito gran parte della sua retorica politica, ma ha giocato la sua faticosa, ma concreta scommessa politica. E la sta perdendo, anche se non è ancora detta l’ultima parola.