Che le sorti della democrazia in un Paese africano come il Niger siano un problema per le cancellerie e le opinioni pubbliche europee è un fatto nuovo, e di per sé encomiabile. Molti hanno scoperto, a seguito del golpe militare, che il Niger non solo è un fornitore strategico di un terzo circa dell’uranio per le centrali nucleari francesi, ma anche un partner-chiave per il controllo dei transiti dei migranti e profughi nell’Africa occidentale.
Dal settembre 2016, con l’entrata in vigore di una legge approvata l’anno prima, il Paese reprime i passaggi di persone di varia provenienza che intendono attraversare la nazione con l’intento di raggiungere l’Africa settentrionale, da decenni meta di migrazioni sub-sahariane: flussi di persone in parte stagionali e circolatori, in parte animati da progetti di insediamento più o meno stabile, in parte guidati dal proposito di proseguire il viaggio verso l’Europa. Il poverissimo Niger ospita inoltre circa 200mila profughi in fuga dalle violenze dei jihadisti del Mali e del Burkina Faso, nella famigerata zona dei tre confini. Da qui sono partiti i corridoi umanitari finanziati dalla Cei con i fondi dell’otto per mille per portare al sicuro in Italia i malcapitati fuggiti dalla Libia.
La narrazione ufficiale ha spesso descritto in questi anni il Niger come un partner esemplare delle politiche di Bruxelles e dei governi dell’UE. Poco più di un anno fa, nel luglio 2022, una nota di Bruxelles sosteneva: «Gli sforzi congiunti nell’ambito di questo partenariato aiuteranno a salvare vite umane, interrompere il modello di business utilizzato dalle reti criminali, impedire ai migranti di diventare vittime di violenza e sfruttamento e proteggere i loro diritti fondamentali». Il Niger è stato persino premiato dall’UE per la sua collaborazione con le istituzioni europee, e dall’Italia ha ottenuto un finanziamento di 7,5 milioni di euro a carico del Fondo Migrazione 2023 nell’ambito delle iniziative per contrastare il traffico di esseri umani.
Le evidenze raccolte sul terreno raccontano una storia diversa. In un Paese poverissimo, il transito di migranti nella reg ione di Agadez alimentava un’elementare economia dei passaggi, in cui si guadagnavano da vivere non solo i guidatori dei mezzi di trasporto, ma i fornitori di alloggi, di cibo, di acqua, di schede telefoniche e di altri servizi. Era un’economia inserita nella società locale, conosciuta e largamente tollerata, perché procurava mezzi di sostentamento a migliaia di famiglie. Il brusco cambiamento di rotta del governo nigerino l’ha stroncata, tamponando qua e là l’impatto del nuovo corso con qualche aiuto umanitario. Praticamente da un giorno all’altro degli operatori economici che offrivano servizi e sviluppavano transazioni alla luce del sole sono stati criminalizzati, subendo arresti e sequestri.
È una storia esemplare di come i deboli governi africani prendano misure contrarie agli interessi dei loro cittadini per aderire alla volontà dei potenti partner occidentali e ottenerne l’appoggio. Come conseguenza, i transiti si sono indubbiamente ridotti, come desiderato dai governi europei, ma le rotte residue sono diventate più tortuose, costose e pericolose. Il livello di criminalità si è alzato, perché ora si tratta di eludere pattugliamenti e controlli armati, e questo comporterà probabilmente nuovi investimenti nella militarizzazione del remoto confine tra Niger e Libia, per tenere lontani i profughi dalle sponde del Mediterraneo. Sempre che le nuove autorità di Niamey accettino di continuare a collaborare. Se lo faranno, non è difficile prevedere che l’atteggiamento dei governi europei finirà per ammorbidirsi.