Non ha usato ne giri di parole né eufemismi. E al termine di un Anno giubilare sulla misericordia, ai nuovi incorporati nel collegio cardinalizio il Papa ieri ha indicato la strada che attende la Chiesa. Quella che coincide con l’apice e il punto culminante della misericordia e dell’amore richiesti da Cristo: l’amore dei nemici. Una richiesta radicale. Se «noi innalziamo muri, costruiamo barriere e classifichiamo le persone, nel cuore di Dio non ci sono nemici, Dio ha solo figli». «Dio ha figli – ha detto il Papa – e non precisamente per toglierseli di torno». Nella prospettiva di un’epoca, la nostra, sfregiata dal terrorismo e da una miriade di guerre di dominio, in cui risorgono epidemicamente la polarizzazione e l’esclusione come unici modi possibili per risolvere i conflitti, si può comprendere la necessità di una testimonianza cristiana come quella richiesta anche e soprattutto a chi è chiamato ad andare «nella pianura» della quotidianità tormentata dell’esistenza per collaborare alla giustizia e alla pace nel mondo.
La richiesta dell’amore del prossimo, avanzata da Gesù Cristo, non è infatti solo centrale ma anche radicale, così radicale da togliere il fiato.
Del resto nel Discorso della montagna Cristo, chiedendo di aspirare alla giustizia perfetta, si spinge al di là dell’umanamente possibile: «Amate i vostri nemici, fate il bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi trattano male». L’apice e il punto culminante della misericordia e del comandamento dell’amore dei nemici sono motivati da un punto di vista umano con il comportamento di Dio verso i peccatori, un comportamento che si spinge appunto fino all’estremo.
Come ha detto il Papa: «Queste non sono azioni che vengono spontanee con chi sta davanti a noi come un avversario, come un nemico». Con queste parole Cristo aveva abolito lo ius talionis, «occhio per occhio, dente per dente», ciò che è oltre la normale forza umana e che richiede una grandezza e una sovranità umana e cristiana, ma che sola però spezza il ciclo del male e il circolo vizioso della violenza e della ritorsione, e stabilisce la pace.
L’amore dei nemici è forse la richiesta umanamente più difficile di Gesù, e tuttavia questo è uno dei comandamenti centrali, che affonda le radici nell’essenza più intima del mistero cristiano e rappresenta perciò la specificità nel comportamento del discepolo di Cristo. Tanto che a giudizio dei Padri della Chiesa questo comandamento è lo specifico della novità cristiana: «Chi non ama colui che lo odia, non è un cristiano», recita la seconda lettera di Clemente. Tertulliano chiama l’amore dei nemici la «legge fondamentale», per Crisostomo è «il migliore compendio della virtù».
Ma già i Padri riconobbero le difficoltà che presenta l’attuazione concreta di questo comandamento, in mezzo alle complessità e alle strutture di peccato di questo mondo. Non solo il singolo cristiano, non solo gli Stati, ma pure la Chiesa ha faticato e fatica a praticare il comandamento dell’amore dei nemici, spesso fallendo. Eppure dove andiamo a finire se non resistiamo al malvagio? Se si cede alla legge del taglione? L’amore dei nemici non è quindi un assurdo ma diventa un credo quia rationabile est, anche nella Chiesa. Perché per un «autentico uomo ecclesiastico», secondo le parole di san Cipriano, al di sopra di tutto c’è «l’indissolubile vincolo della pace», e si sentirebbe colpevole se lacerasse, sia pure con il minimo «scisma di carità, la Tunica senza cuciture di Cristo».
Al cardinale segretario di Stato Amleto Cicognani che lo invitava a usare «una mano più forte» con le opposizioni di Curia, Giovanni XXIII rispondeva: «Gesù non farebbe così, non è il suo spirito; non darei edificazione intervenendo; occorre avere pazienza e attendere; non si farebbe che suscitare divisioni e rancori». L’«autentico uomo ecclesiastico», anche quando non può impedire la polemica, non si lascia per lo meno inasprire da essa. E le manovre di coloro che san Paolo chiamava già «i falsi fratelli» non lo inducono a ricorrere alle stesse armi. Perché egli si ricorda bene che «la sapienza celeste è pura, pacifica, moderata, conciliante», che la carità deve essere «senza finzione» e che «il frutto della giustizia si semina nella pace». «Tutto il suo comportamento – scrive De Lubac nella Fisionomia dell’autentico uomo di Chiesa – dà a vedere che lo spirito fortificante che ha ricevuto è nello stesso tempo "spirito d’amore e sobrietà". E solo così l’amore che egli ha dato alla Chiesa non può che uscirne purificato».
La riforma dell’amore nella sua radicalità come governo nella Chiesa è il mandato che il Papa ha consegnato ieri. E non solo ai neo cardinali.