Una scena di "Green Book", Oscar al miglior film, con Viggo Mortensen e Mahershala Ali. La regia è di Peter Farrelly
Gli Oscar di quest’anno non hanno avuto un film 'trionfatore' e hanno distribuito i premi principali a pellicole diverse, ma come sempre l’attribuzione delle ambitissime statuette è un termometro interessante dei gusti e degli orientamenti dei circa 7mila votanti dell’Academy, che quest’anno è apparsa una equilibrata via di mezzo fra i gusti del pubblico vero e proprio e quello della élite di chi scrive, sceglie, dirige, finanzia i film che vanno in tutto il mondo. Si è parlato di 'manuale Cencelli' nelle assegnazioni, metafora forse impropria, perché i premi non sono frutto dell’accordo di una giuria ristretta, che – per esempio nei festival – può decidere di equilibrare gli esiti dando premi qua e là per non scontentare nessuno, ma sono il risultato di migliaia di voti, ciascuno autonomo e, in teoria, segreto.
Va salutato con soddisfazione il fatto che il premio al miglior film sia andato a Green Book, un film che mette il dito nella piaga del razzismo della società americana, ma non con rabbia o con uno spirito amaro di denuncia sterile bensì proponendo una bellissima storia vera di amicizia di due persone molto lontane fra loro – per etnia, cultura, sensibilità, classe socio-economica – che imparano a conoscersi e a rispettarsi. Si tratta, com’è noto, dell’amicizia fra un coltissimo e talentuosissimo pianista nero, Don Shirley, e del suo autista-guardaspalle italo-americano, Tony Vallelonga, che lo accompagna in un tour artistico nel profondo Sud degli Usa all’inizio degli anni ’60, in un’America ancora segregazionista. Green Book è infatti il titolo di una guida che segnalava agli afro-americani hotel e ristoranti in cui erano ammessi. Il film è quindi una storia di 'amicizia fra lontani' che è stata anche un ottimo successo di pubblico (costato 23 milioni, finora ne ha incassati più di 140) e che in qualche modo richiama altre storie come Il discorso del re, Quasi amici, e anche – salvate le differenze di genere e di stile – il nostro Benvenuti al Sud.
Green Book racconta odiosi episodi di discriminazione in un Sud degli Stati Uniti ancora intriso di razzismo e con consuetudini sociali da apartheid, ma fa soffrire l’ingiustizia di tutto questo senza dover inscenare fatti crudeli o violenti. È un film – come ha detto il produttore Jim Burke nel ricevere la statuetta – «fatto con amore, con tenerezza, con rispetto», un film, come ha ribadito il regista Peter Farrelly, «sull’amarci l’un l’altro nonostante tutte le differenze». Green Book ha vinto anche l’Oscar per la sceneggiatura originale: Nick Vallelonga, figlio di uno dei protagonisti, pensava a «una storia da film» sin da quando il padre gli raccontava di quell’anno (nel film ridotto a due mesi) in cui aveva girato gli Usa con il pianista chiamato da tutti 'Dr. Shirley' perché titolare di un phd. Il film è stato poi scritto con Brian Currie, e presto vi è entrato il regista Peter Farrelly. La svolta si è avuta quando ha aderito al progetto l’attore Viggo Mortensen, affascinato dalla sceneggiatura ma anche preoccupato dal fatto di dover interpretare – lui di origini danesi – un italo-americano. Per questo molti ringraziamenti nella notte degli Oscar sono andati a lui, che ha perso, probabilmente per un soffio, la statuetta come miglior attore... Con Mortensen 'on board' la strada verso il finanziamento e la produzione è stata assai più agevole. Interessante notare che la società di produzione, Participant Media, fosse entrata anche nella produzione di Roma, altro film che ha vinto diverse statuette e di cui si aspettava un 'raccolto' ancora maggiore.
Participant è una realtà molto interessante, fondata da un industriale-mecenate ebreo canadese, Jeffrey Skoll, che ha come obiettivo esplicito il 'cambiamento sociale'. Dopo aver prodotto film civili e impegnati come Good Night and Good Luck, il documentario di Al Gore, Una scomoda verità, e film impegnati come Syriana, è entrata in co-produzione in molti progetti importanti e di impegno civile (spesso con Spielberg) come Il ponte delle spie, Wonder, The Post e molti altri. Participant Media era anche la società di produzione di Spotlight, tre anni fa miglior film e migliore sceneggiatura originale. Interessante anche che la società di produzione Plan B di Brad Pitt fosse presente quest’anno con il film Vice su Dick Cheney – film amaramente istruttivo sui retroscena della politica americana con un grande Christian Bale – e Se la strada potesse parlare, altro film sul razzismo della società americana (Oscar alla miglior attrice non protagonista per Regina King). Plan B era anche dietro 12 anni schiavo e Moonlight, vincitori di Oscar in anni recenti.
Green Book ha completato il suo palmarès con la vittoria come miglior attore non protagonista di Mahershala Alì, la seconda in due anni per l’attore. Il pianista che interpreta è omosessuale, ma nel film non è presente la diffusa posizione ideologica per cui questa sarebbe una condizione di per sé migliore o più realizzata. Nella sceneggiatura di Vallelonga, il quale racconta di aver avuto lunghe conversazioni con Shirley che gli chiedeva di raccontare la storia per il cinema ma di aver aspettato la sua morte per farlo (altra analogia con le vicende produttive del Discorso del re), il momento culminante è il forte colpo emotivo che fa del finale una silenziosa e non ostentata celebrazione degli affetti familiari. È stata probabilmente questa capacità del film di toccare il cuore (le fonti specializzate sono concordi sugli applausi commossi degli spettatori alla fine delle proiezioni nei cinema) che l’ha fatto prevalere su altri prodotti formalmente più artistici ma più freddi. È il caso di La favorita, storia cinica e amara di ascesa sociale, quasi una lotta per la sopravvivenza che diventa contesa per il potere attraverso la conquista dei favori sessuali della regina da parte di una giovane apparentemente ingenua, Abigail Hill, interpretata da Emma Stone, che scalza la duchessa cugina, interpretata da Rachel Weisz.
Partito con dieci nominations, il film ha ottenuto solo la statuetta per la miglior protagonista all’inglese Olivia Colman, che ha bissato il premio ricevuto a Venezia. La favorita ha condiviso le sorti di Roma (dieci nominations, poche statuette), anch’esso lanciato al festival in Laguna dove aveva vinto il Leone d’Oro. Non a caso il direttore della Mostra veneziana Alberto Barbera ha rilasciato un commento piccato, come se il premio a Green Book fosse un’ingiustizia per Roma, che è un’opera sicuramente audace e formalmente molto autoriale (peraltro i premi per miglior fotografia, miglior regia e miglior film straniero sono un bel bottino). Attenzione, però: Roma non è tanto, come molti hanno scritto, la storia di una famiglia borghese nel Messico degli anni ’70 ma un inno alla forza e alla resistenza umile e paziente della tata Cleo, interpretata dall’esordiente Yalitza Aparicio. Più ancora, è una storia sulla forza delle donne: «Possono dirti quello che vogliono, alla fine rimaniamo sempre da sole» dice la madre della famiglia alla dolce Cleo, a tutti gli effetti protagonista della storia. Gli uomini non fanno certo una bella figura, una scelta la cui ispirazione è nella vera storia della famiglia del regista.
Si è molto parlato di Roma e della sua novità in quanto film distribuito principalmente da Netflix (ma in Italia ha ottenuto anche una buona presenza nelle sale). Negli Oscar 2019 dunque non si è verificato il sorpasso della nuova piattaforma sulle grandi major tradizionali, ma è certo che Netflix sta abituando a una maggior fruizione di contenuti provenienti da diverse parti del mondo e non solo – come finora – dagli Usa e dal proprio Paese. Le dieci nominations a un film messicano girato in spagnolo sono quasi un record. Crescono internazionalità, diversità, apertura al 'gusto degli altri'. È un’opportunità in più per tanti Paesi, anche per l’Italia: chissà se saremo in grado di sfruttarla...