Sbaglierebbe chi
interpretasse l’omelia della Messa di ieri, pronunciata da papa Francesco a San Cristobal de Las Casas, in Chiapas, come un mero tributo, pur doveroso, alla causa indigena. Fosse così, il severo 'mea culpa' recitato ieri da Francesco suonerebbe in ritardo di quasi 25 anni: è almeno dal 1992 – da quando, cioè, si celebrarono solennemente i 500 anni dalla scoperta dell’America (o dalla conquista) – che il dramma degli indios e della loro spoliazione, culturale prima ancora che economica, è balzato sotto i riflettori della coscienza mondiale. Rivolgendosi ai fedeli appartenenti a diverse comunità indigene, dopo una liturgia della Parola proclamata in tzotzil, una delle lingue maya, Francesco ha detto: «Molte volte, in modo sistematico e strutturale, i vostri popoli sono stati incompresi ed esclusi dalla società. Alcuni hanno considerato inferiori i loro valori, la loro cultura e le loro tradizioni. Altri, ammaliati dal potere, dal denaro e dalle leggi del mercato, li hanno spogliati delle loro terre o hanno realizzato opere che le inquinavano. Che tristezza! Quanto farebbe bene a tutti noi fare un esame di coscienza e imparare a dire: perdono! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Fa notizia un Papa che si rivolge a popolazioni storicamente perseguitate e tutt’oggi ancora fondamentalmente escluse dal processo di sviluppo denunciando, senza mezze misure, la «cultura dello scarto» (un autentico leit-motiv bergogliano). Ma è il passaggio successivo dell’omelia quello – se possibile – ancora più forte, laddove il Papa sostiene che «i giovani di oggi, esposti a una cultura che tenta di sopprimere tutte le ricchezze e le caratteristiche culturali inseguendo un mondo omogeneo, hanno bisogno che non si perda la saggezza dei loro anziani!». Parole come queste non sono altro che l’appello vibrante e profetico a una globalizzazione che non cancelli le diversità, ma che, anzi, le valorizzi come un tesoro di valore inestimabile. Il primo Papa venuto dall’America latina sa bene il ruolo delicato che le minoranze indigene svolgono nei Paesi dell’area. E conosce altrettanto bene i rischi che quell’immenso patrimonio di «biodiversità culturale» corre oggi, in un tempo in cui una perversa alleanza tra economia, tecnologia e modernità mina alla base tutto ciò che fa rima con tradizioni, sentimento popolare, identità locali. Non è un caso, infatti, che papa Bergoglio – figlio della famiglia religiosa dei Gesuiti, ai quali si devono iniziative missionarie importantissime nell’ottica della valorizzazione delle culture locali – invochi con forza il valore della gratuità come antidoto efficace contro la riduzione in atto dei valori a merce. «Il mondo di oggi, preso dal pragmatismo, ha bisogno di reimparare il valore della gratuità!», ha tuonato Francesco. E lo ha fatto in una terra, il Chiapas, carica di storia e di simboli. È proprio lì che, cinque secoli fa, si manifestò il volto misericordioso della Chiesa nella figura di Bartolomeo de Las Casas, il domenicano che fu primo vescovo di San Cristóbal e che non esitò a prendere posizione contro i
conquistadores e contro i teologi spagnoli che pretendevano di giustificare con la dottrina i massacri perpetrati contro gli indios, reputati «privi di anima». Il Chiapas inoltre, non dimentichiamolo, è pure la culla della rivolta zapatista, che prese il via il 1° gennaio 1994, giorno in cui entrava in vigore l’accordo di libero scambio col Nord America: una data simbolica a indicare l’avvio di una globalizzazione a senso unico. Per lunghi anni, infine, vescovo di San Cristobal de las Casas è stato quel monsignor Samuel Ruiz, soprannominato 'Tatic' dalla gente, al quale si deve lo sdoganamento di una pastorale incentrata proprio sul rispetto dell’identità indigena. Un processo durato lunghi anni (solo nell’autunno 2015 è stata completata la traduzione della Bibbia in lingua tzotzil), condotto tenacemente da teologi che non di rado hanno dovuto misurarsi con ostacoli e incomprensioni con Roma. Ma che oggi, con il definitivo riconoscimento dell’uso delle lingue maya nella liturgia, conosce, finalmente, un autentico e atteso punto di non ritorno. La Chiesa è comunione tra diversi e non un monolite indifferenziato e l’altro non è un ostacolo, ma una ricchezza, per il bene comune: questo il messaggio che, dal Chiapas, Francesco consegna a popoli e culture di ogni latitudine.