Le titubanze e i ritardi che stanno ancora frenando la concessione della cittadinanza italiana ai bambini e agli adolescenti di origine straniera regolarmente iscritti nelle scuole del nostro Paese a mio avviso dimostrano due cose, una comprensibile, ancorché superabile (la nostra fragilità identitaria); l’altra perniciosa e, dobbiamo ammetterlo, abbastanza inquietante (l’ipocrisia di chi specula a fini elettorali). Io conosco tanti ragazzi nati in Italia da genitori immigrati che non sono giuridicamente italiani. Lo potranno essere al compimento dei diciotto anni, quindi in ogni caso lo saranno, anche conservando le leggi attuali.
Omar è un sedicenne di Torpignattara, quartiere capitolino. Suo padre e sua madre vengono dall’Egitto. Lui ha visto la luce nell’Urbe imperitura, come la sorella Fatima, con la quale condivide la medesima sorte. Hanno frequentato le nostre scuole. Parlano con spiccato accento romanesco. Ripeto: fra pochi anni diventeranno italiani al cento per cento, su loro richiesta, ma ancora non lo sono. Perché negare a entrambi, adesso non domani, l’uguaglianza giuridica? I padri costituenti, se interpreto bene lo spirito lungimirante del dettato fondativo della Repubblica nata dalla dissoluzione di un regime totalitario, non avrebbero esitato nel concedergliela. E allora come spiegare tante indecisioni, tanti distinguo, tante premure? La risposta può essere una sola: il desiderio di consenso politico ci fa passare sopra a ogni scrupolo morale anteponendo le ragioni del potere a quelle della giustizia. Nicolò Machiavelli e Thomas Hobbes ce lo spiegarono.
Ma dopo di loro ci sono state le rivoluzioni democratiche moderne: o sbaglio? Ci aspetta un grande lavoro antropologico e sociale per rimuovere i pregiudizi e promuovere il libero confronto fra le persone: se tu non sei sicuro di te stesso, avrai paura di qualsiasi possibile intrusione, ogni incontro umano rischierai di percepirlo come minaccioso. Questi timori andrebbero affrontati senza strumentalizzarli, né da una parte né dall’altra. Torniamo a Omar. In queste settimane la sua presenza alla scuola Penny Wirton si è rivelata preziosa: essendo uno studente impegnato nei Pcto (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, ex Asl, Alternanza Scuola Lavoro), ovverosia le ore di tirocinio che ogni allievo delle scuole medie-superiori è tenuto a svolgere, lo abbiamo formato quale docente di italiano ai suoi coetanei immigrati. Omar parla arabo, quindi potete immaginare quale possa essere stato il suo ruolo di mediatore nei confronti di Ismail, appena arrivato dalla Tunisia.
Vederli seduti al banco insieme a studiare i tempi verbali rappresenta uno spettacolo emozionante e in molti sensi istruttivo: il minorenne non accompagnato ospite di un centro di accoglienza che prende lezione da un suo coetaneo figlio di una coppia di immigrati. Osservando i due adolescenti posti uno di fronte all’altro, è difficile trattenere lo sconcerto nel verificare il ritardo istituzionale che la loro relazione testimonia: il docente di italiano non è riconosciuto italiano. Quanto vorrei che alcuni dei parlamentari impegnati a discutere di 'ius culturae', 'ius soli' e 'ius sanguinis' in questi giorni alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, venissero a Casal Bertone, nella sede della nostra scuola, a toccare con mano quanto sto scrivendo! Forse si renderebbero conto dell’anacronismo legislativo con il quale sono alla prese.
La cosiddetta società reale, troppo spesso chiamata in ballo come un’astratta entità, è molto più avanti di quanto crediamo. A guidare le fila del nuovo consorzio umano, traghettando tutti noi verso la metà del Terzo Millennio, saranno proprio questi ragazzi, uno appena arrivato nel Bel Paese, pronto a imparare la nostra lingua per iscriversi a scuola, trovare un lavoro e chissà magari sposarsi e fare dei figli, l’altro che gliela sta insegnando, perché lui in Italia ci è nato, ci è cresciuto, ci è vissuto, ma è ancora in attesa di ottenere la cittadinanza.