Il dibattito sulla autonomia regionale differenziata è giustamente concentrato sul disegno di legge Calderoli. Le opinioni sono fortemente differenziate: da un lato si avverte che provocherebbe una forte disuguaglianza fra le varie parti del Paese («spacca l’Italia»), dall’altro si sostiene che, invece, sarebbe positivo per tutti. Nessuna di queste opinioni, a parere di chi scrive, è confortata da riscontri oggettivi e, così, il confronto resta chiuso nei rispettivi apriorismi. Proprio per questo è opportuno cercare di ampliare il livello del dibattito e collegarlo ad alcune considerazioni di fondo dalle quali si potrebbero trarre indicazioni concrete e che sono comunque utilizzabili per impostare correttamente il tema. Il problema delle autonomie, differenziate o meno, non può essere isolato dall’insieme del contesto istituzionale, economico e sociale nel quale si colloca.
In particolare, tale contesto è rilevante per almeno tre profili: 1) le implicazioni connesse all’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea; 2) il problema complessivo dell’uguaglianza fra le varie parti del Paese; 3) la questione della chiarezza delle competenze anche ai fini della imputazione delle relative responsabilità. Vediamo.
1) Nella distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni non si può non tener conto del fatto che l’Italia è uno Stato membro di una Unione di Stati. Alcuni poteri, dunque, non sono né statali né regionali perché sono esercitati dalla Ue e, comunque, la re-sponsabilità nei confronti della Ue è dello Stato anche se la competenza nell’ordinamento interno è attribuita alle Regioni.
2) Il problema della disuguaglianza fra diverse zone d’Italia non è di per sé connesso con quello delle competenze delle Regioni. Fatte da 1 a 5 le zone più ricche (1) e più povere (5) dei vari Paesi europei, mentre la Francia sta tutta fra 2 e 4, l’Italia insieme alla Germania (e all’Inghilterra, ormai extracomunitaria) ha la più vasta zona di 1 e però ha anche la più vasta zona di 5. Anche nei servizi gestiti in modo uniforme direttamente dallo Stato si registrano livelli di qualità diversi nelle varie zone del Paese. Alcune ricerche empiriche in materia di Istruzione, tema già oggetto di approfondimento specifico sulle pagine di “Avvenire”, hanno dimostrato che un servizio del tutto uguale nell’organizzazione, nelle risorse e nel trattamento del personale ha livelli di efficienza localmente differenziati. Si può ritenere, ma va dimostrato, che la gestione del servizio da parte della Regione determinerebbe una accentuazione nella apertura della forbice. Un criterio che potrebbe essere assunto come valido consiste nel ritenere che ciò che è già ad alto livello possa migliore ulteriormente se, insieme, s’innalza anche ciò che è a più basso livello.
3) Un argomento che spesso si adduce a favore di un ampliamento delle autonomie regionali è che consentirebbe una più chiara imputazione delle responsabilità politiche. In effetti, mentre per lo Stato e i Comuni l’imputazione delle responsabilità è abbastanza agevole, non lo è altrettanto per le Regioni perché non hanno la responsabilità piena ed esclusiva delle competenze. Qui va detto che c’è stato un difetto di impostazione anche da parte della sinistra che voleva le autonomie (soprattutto là dove governava), ma non tollerava le disuguaglianze (mentre è evidente che l’autonomia implica necessariamente la possibilità’ di una differenziazione). La definizione del grado di autonomia che si vuole attribuire alle Regioni implica l ’individuazione di un punto di confine fra i due opposti poli della unità e della differenziazione.
Le politiche istituzionali, non riuscendo a scegliere un punto definito, hanno massimizzato sia i profili di unità che quelli della articolazione (se ne ha conferma nell’analisi dei singoli istituti). Si è creato così un sistema “a responsabilità confuse” e si è cercato di nobilitarlo con formule tratte, impropriamente, dal diritto internazionale, come quella della «leale collaborazione» o quella del «regionalismo cooperativo». Altro profilo rilevante in tema di responsabilità è che si ritiene che vi sia, e che debba restare, una sorta di “responsabilità ultima” dello Stato. Se ne è avuta conferma durante la pandemia.
Questa “responsabilità ultima” solleva però notevoli problematiche. Anzitutto, nelle attività prestazionali che comportano organizzazioni complesse il potere sostitutivo incontra notevoli difficoltà di applicazione. Inoltre, lo Stato si sta progressivamente indebolendo per la progressiva erosione di poteri verso l’alto (organizzazioni sovranazionali, Unione Europea) e verso il basso, sul versante delle autonomie. Se così è, non gli si può chiedere di essere sempre pronto a coprire ogni falla. Come si vede, il, cantiere è aperto e è l’esito dei lavori in corso non è scontato.
Giurista, professore emerito nell’Università di Roma Tre