Sei mesi di tempo guadagnati: sei mesi veri, guadagnati insieme, dopo un accordo raggiunto, e non a danno degli interlocutori. Sei mesi importanti per costruire un clima di buona fede reciproca, per verificare le rispettive intenzioni e disarmare i tanti che, da una parte e dall’altra, da anni non fanno che chiedere uno show down.
È questa la cifra politica più importante dell’accordo raggiunto all’alba di domenica a Ginevra, un accordo particolarmente rilevante perché firmato congiuntamente anche da Stati Uniti e Iran, ovvero da due Paesi che da quasi trentacinque anni non hanno più relazioni diplomatiche. L’accordo rappresenta insieme un test e una moratoria: un test delle reciproche disponibilità a trattare in maniera trasparente e leale e una moratoria nell’escalation delle rispettive posizioni, fatte di sanzioni sempre più dure e di arricchimenti dell’uranio sempre più sospetti. Ha dell’incredibile che, di fronte all’urgenza della sfida posta dall’incombere di tempi in rapida dissolvenza, si sia riusciti a disarmare quel "dilemma della sicurezza" che stava spingendo il Medio Oriente verso un nuovo, inesorabile conflitto.È un inizio, come è stato sottolineato da pressoché tutti i commentatori ieri, ma è anche un passo necessario e tutt’altro che scontato, apparso in forse fino alle ultime concitate ore. A chi storce il naso di fronte al suo carattere transitorio basterebbe ricordare che ogni altra ipotesi sarebbe stata peggiore. A chi parla di un Occidente timido e arrendevole è sufficiente rammentare che il massimo di coesione cui l’Occidente era, recentemente, arrivato consisteva nell’adozione di un duro regime di sanzioni verso l’Iran. Una solidarietà che, molto difficilmente, avrebbe retto di fronte all’ipotesi di un atteggiamento ancora più muscolare verso la Repubblica islamica. Alla luce di questo, l’Occidente ha portato a casa il massimo che poteva ottenere: ripetiamo, uno spazio di verifica della sincerità delle intenzioni iraniane. Da parte sua, la nuova presidenza di Teheran ha ottenuto un riconoscimento internazionale della sua rottura rispetto a quella di Ahmadinejad, e sei mesi di respiro che potrebbero contare parecchio nel consolidamento della sua autonomia rispetto alle altre istituzioni del Paese e, soprattutto, del suo prestigio presso la società iraniana. Chiunque con i suoi comportamenti, da una parte e dall’altra, vorrà ora sprecare l’occasione per la ricerca di un’intesa più profonda e duratura sa che dovrà portarne sulle spalle la responsabilità storica, mentre i pontieri di pace di entrambe le sponde avranno a disposizione, per i prossimi sei mesi, una carta finora neppure sognata.Restano i cori negativi, tra gli altri, di sauditi e israeliani, entrambi preoccupati che l’Iran abbia semplicemente guadagnato tempo rispetto a un progetto nucleare che contempla innanzitutto la dimensione militare. Tutto è possibile, ma sembra difficile non rilevare come tanto Gerusalemme quanto Riad siano perfettamente consapevoli di come l’asserita incombenza di una minaccia esistenziale da parte dell’Iran sia proprio ciò che consente a Israele e Arabia Saudita di essere oggettivamente alleate. Se Israele rimane la superpotenza militare unica della regione, l’Arabia Saudita è la potenza politicamente in ascesa nel Mondo arabo: e tanto all’uno quanto all’altra, probabilmente, l’idea di una possibile futura riconciliazione degli Stati Uniti (il loro comune alleato e patrono) con l’arcinemico iraniano deve fare tutt’altro che piacere.