Il problema va affrontato alla radice. Ed è proprio per questo che finora l’azione di contrasto ai pirati in mare si è rivelata inefficace. Ma proprio perché il problema è alla radice, la soluzione non può essere che “politica”. Ora l’ennesimo sequestro di una nave italiana riaccende i riflettori, a pochi giorni dalle luci natalizie che avevano accompagnato la liberazione dopo dieci mesi di un altro equipaggio, quello della Savina Caylyn. E mentre monta la polemica sul fatto che la legge anti-pirateria (che prevede l’impiego di militari italiani a bordo dei mercantili) sia ancora ferma al Senato, cresce anche la convinzione che tutto quanto messo in campo possa soltanto contrastare debolmente, ma non estirpare, un fenomeno che sta minando le rotte commerciali sulle quali passano un terzo del petrolio mondiale e buona parte dei traffici diretti verso il Mediterraneo attraverso il Golfo di Aden e, più a Nord, per il Canale di Suez. (Se a ciò si aggiungono le periodiche minacce iraniane, reiterate ieri, di bloccare in caso di sanzioni occidentali lo Stretto di Hormuz, dal quale transita tutto il greggio del Golfo Persico, la paralisi potrebbe essere totale). Più volte gli esperti hanno sottolineato che il problema del contrasto della pirateria è soprattutto “logistico”: pattugliare, come fa la missione internazionale, un tratto di mare 'a rischio', che di giorno in giorno si estende per le crescenti capacità logistico-tecniche dei pirati, è praticante impossibile. I criminali dispongono di attrezzature sofisticate, di informazioni di prima mano sui carichi e le società che armano i mercantili e di 'contabili' che nel giro di pochissimo tempo fanno sparire il denaro incassato con i riscatti.
Gli armatori sono invece tra l’incudine e il martello: da un lato, le compagnie assicuratrici continuano ad alzare esponenzialmente i premi; dall’altro, vi sono i costi crescenti di rotte alternative o la certezza di dover versare riscatti nel caso in cui i propri equipaggi finiscano nelle mani dei pirati. E gli equipaggi sono sempre meno tutelati. Anzi, non nascondono il timore che una militarizzazione degli scafi, con la presenza di incursori della Marina a bordo, possa accrescere e non far diminuire i rischi per la propria incolumità. Il problema torna quindi all’origine, come un cane che si morde la coda. Il mondo occidentale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea sono pronti ad imbarcarsi in un’avventura che si chiama Somalia? C’è la volontà politica di risolvere alla radice il problema di uno Stato fallito in cui si moltiplicano le complicità garantite ai criminali, insieme ad approdi sicuri e basi logistiche dalle quali sferrare attacchi sempre più frequenti? Nei giorni scorsi il premier britannico David Cameron ha detto che dopo la Libia, ora il Corno d’Africa pone una «minaccia diretta» agli interessi della Gran Bretagna. Barack Obama da tempo ha stanziato fondi e droni per combattere il terrorismo degli shabaab somali, che offrono un terreno fertile alla crescita della pirateria.
Pronunciamenti univoci di altre cancellerie non vi sono però stati.
Nessuno vuole imbarcarsi nell’ennesima missione militare con un tornaconto tutt’altro che certo come poteva essere invece l’'impresa' libica. Ma il sequestro della «Ievoli», portato a compimento ieri, è lì a testimoniare che il problema esiste ed è quotidiano. Curare i sintomi non può che prolungare l’agonia della regione. Siamo di fronte a una situazione che da oltre vent’anni è solo peggiorata.
Perché il problema continua a chiamarsi Somalia.